di Adele Saita
“Dove un superiore, pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto, la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro” (Filippo Turati, in Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962).
Tutti, ad un certo momento della nostra vita, abbiamo scoperto di non vivere e di non fare i conti con il migliore dei mondi possibili. D’altra parte, già Voltaire qualche secolo fa aveva fatto notare che affrontare candidamente la realtà può non essere la via maestra per uscirne vincenti. Ciononostante, vi sono ancora certi ambiti in cui ci sembra naturale che tutto sia come dovrebbe essere. Perché in verità l’uomo in animo conserva ancora quello slancio al giusto e al vero che dovrebbe portare il giusto a prevalere sull’ingiusto, e non solo nei film di Walt Disney.
Crescendo, ci rendiamo conto che il confine fra giusto e ingiusto non è poi così netto. Nella vita reale, non esiste da una parte il principe azzurro e dall’altra Malefica. Esistono invece persone, processi e sistemi sfaccettati che non sono vestiti di nero e non abitano in oscuri castelli diroccati ma stanno in mezzo a noi, molto spesso vestiti addirittura di bianco. E allora, come una società governa questa dicotomia?
C’è stato un tempo, ormai piuttosto lontano, in cui le genti hanno deciso di sacrificare una parte delle proprie libertà per metterle al servizio di un disegno più grande: una società civile, unita nel rispetto di principi e valori condivisi. Un patto sociale, un disegno costruito su valori di libertà, uguaglianza, responsabilità. Per noi italiani, un disegno costruito sui valori costituzionali che, all’indomani di un’esperienza totalitaria e arrogante, saggi giuristi hanno messo nero su bianco. Un disegno che, se colorato entro i margini stabiliti, avrebbe potuto garantire armonia ed equilibrio, governando affinché il giusto prevalga sull’ingiusto.
E chi, nel nostro ordinamento, è chiamato a esercitare questo controllo? L’ordine giudiziario. Ma faremmo un errore a pensare, candidamente, che i magistrati siano solo le funzioni che esercitano. Sono in primo luogo persone. Con un bagaglio tutto umano di luci ed ombre. Ognuno con i propri punti di forza e di debolezza. Ognuno con la propria idea di diritto che anni di studio e ricerche hanno consolidato. Siamo ormai molto più abituati ad ammettere che i virologi possano pensarla diversamente su uno stesso punto ma ci riesce difficile pensare che, essendo il diritto anch’esso una scienza, una disposizione di legge possa essere interpretata in un modo o in un altro, anche diametralmente opposto.
Eppure, è proprio di dibattito fra posizioni che vive il diritto, è lì che trova la sua forza. Cosa sono in fondo i differenti gradi di giudizio se non una formalizzata possibilità di dibattere e argomentare? Possiamo ricondurre l’importanza del dibattito alla più generale contrapposizione fra diritto e giustizia. Tutti sappiamo che diritto e giustizia non sempre vanno a braccetto. Che, sempre in virtù di quel famoso patto di cui sopra, ci siamo detti disposti a rinunciare, in certi casi, alla giustizia in virtù della forza del diritto.
Antigone è morta su questo altare. Una giovane sorella che non voleva lasciare insepolto il corpo del fratello caduto in battaglia, schiacciata fra ciò che il suo cuore (e il coro, cioè la collettività) riteneva giusto e ciò che la legge imponeva. Perché il concetto di giusto è soggettivo, dicono. Il concetto di giusto non garantisce quella certezza e oggettività che invece l’applicazione del diritto è in grado di assicurare.
Ma non è possibile, però, non dar voce a questioni che meriterebbero di essere dibattute in un’ottica di giustizia, prima ancora che di diritto. Questioni che riguardano non solo Antigone, ma il coro tutto. Allora, se è vero che nel nostro animo conserviamo ancora quello slancio al giusto e al vero che il disincanto dell’età adulta non ha del tutto sopito, dibattiamo. Dibattiamo di una questione attuale ora più che mai, viste le sinistre ombre portate alla luce dalle pagine dei giornali e degli interventi della più alta magistratura sugli equilibri della giurisdizione ordinaria.
Dibattiamo l’inaccessibilità dei provvedimenti di archiviazione preliminare dei procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati ordinari.
Dibattiamo il fatto che, fra il 2012 e il 2018, in media sono state iscritte ogni anno 1380 notizie d’illecito disciplinare e che di queste il 91,6%, cioè oltre 1200, è stato archiviato in via preliminare dal Procuratore Generale presso la Suprema Corte e che a tali atti non è possibile accedere. Dibattiamo il fatto che la segretezza di queste archiviazioni non è in linea né con la ratio dei principi di accesso agli atti e di trasparenza del Potere. Dibattiamo il fatto che il Consiglio di Stato questo aprile (sentenza del 6.04.2020 n. 2309) ha definitivamente sancito la loro inaccessibilità, con motivazioni discutibili ma lineari sul piano del diritto che, però, stringono con malcelata violenza il cuore palpitante della giustizia.
Dibattiamo il fatto che la segretezza delle archiviazioni disciplinari del Procuratore Generale è l’ultimo baluardo di un modus operandi volto a garantire la tutela del prestigio di un ordine professionale che dobbiamo ricordare essere fatto di persone, prima ancora che di professionisti. Dibattiamo il perché, se il Procuratore Generale della Corte Suprema di Cassazione Giovanni Salvi ha affermato che “l’esigenza di trasparenza potrebbe, peraltro, essere rafforzata prevedendo l’accessibilità alle massime dei decreti di archiviazione” (discorso di apertura anno giudiziario 2020), dalle parole del Consiglio di Stato di aprile non si intravveda invece alcun tipo di apertura propositiva su questi temi, non una riflessione di più ampio respiro che si interroghi su principi e valori ma un arroccamento su questioni tecniche di diritto d’accesso.
Dibattiamo il fatto che se è vero che non sempre diritto e giustizia vanno a braccetto, questo non significa volerne una scusa per stritolare il cuore della giustizia che, alla luce di quanto succede nel mondo della magistratura attualmente, palpita sempre più debole. Dibattiamo il fatto che le recentissime parole del Presidente della Repubblica devono leggersi come uno stimolo per questo cuore di giustizia che alimenta un corpo complesso e non possono ritenersi limitate ad un solo organo o apparato. In definitiva, dibattiamo il fatto che Antigone è morta e che noi tutti, invece, avremmo voluto che vivesse.