“Con il taglio dei parlamentari le Camere potrebbero funzionare meglio”, in caso di vittoria del Sì non si rischia alcuno “squilibrio costituzionale”, mentre i correttivi – auspicati sui quali Zingaretti ha vincolato il sì del partito al referendum – “non sono indispensabili”. In un colloquio con Repubblica, Valerio Onida smonta punto per punto le tesi di chi è deciso a votare No, il 20-21 settembre, alla consultazione sulla riduzione del numero dei parlamentari. E contesta pure la tesi dello “squilibrio costituzionale” sostenute dallo stesso giornale che lo intervista. Giudice costituzionale per un decennio, presidente della Consulta dal 2004 al 2005 e professore emerito di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, Onida sostiene innanzitutto che “sia improprio dire No senza una validissima ragione di merito”, dal momento che in ultima lettura la riforma è stata approvata “da tutte le forze politiche in campo”.
“Il no aggraverebbe il fossato di sfiducia che già c’è tra cittadini e istituzioni”, spiega, replicando al giornalista che gli chiede se “sia diventato grillino”. Secondo Onida, un Parlamento composto da 600 membri “non funzionerà peggio, anzi potrebbe funzionare meglio se si coglie questa occasione per mettere mano a tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi parlamentari“. È ritenuto più debole, invece, l’argomento di chi sostiene che grazie al referendum lo Stato risparmierà centinaia di milioni a legislatura. “È una motivazione fasulla. Non si risparmia sulle istituzioni. Ma è un argomento usato purtroppo in altre occasioni da tutte le forze politiche“.
L’ex presidente della Corte chiarisce poi perché, a suo parere, “le presunte conseguenze negative della riforma che vengono oggi agitate, non mi sembrano tali”. Nessuna compromissione dei lavori parlamentari: “Un Senato di 200 membri può lavorare benissimo“, spiega. Per Onida non sarebbero indispensabili nemmeno i correttivi ritenuti indispensabili dal fronte del No (tra cui un nutrito gruppo di costituzionalisti). “Prendiamo la questione dell’elezione del Capo dello Stato. Non mi convince l’obiezione che riducendosi il numero dei parlamentari e rimanendo, nell’assemblea che elegge il Capo dello Stato, tre rappresentanti per ogni Regione, il peso di questi aumenterebbe indebitamente. La Costituzione ha concepito il corpo elettorale del Presidente come più ampio del solo Parlamento, trattandosi di eleggere colui che per 7 anni rappresenterà l’unità nazionale“.
Nel corso dell’intervista il costituzionalista – che aveva sostenuto il No alle riforme di Renzi e Berlusconi, contestando il “rischio di riforme complessive, mentre questa non lo è” – sottolinea anche la necessità di slegare il tema della legge elettorale (oggetto dell’accordo tra M5s e Pd che ha portato al via libera dei dem al taglio). E respinge l’argomento del disequilibrio costituzionale cavalcato dal direttore di Repubblica Maurizio Molinari nell’editoriale con cui ha schierato il giornale per il No. È una tesi che “non capisco“, commenta Onida. “Perché un Parlamento meno numeroso, ma con gli stessi poteri, dovrebbe essere meno influente? Non è così”. Nel caso dei tentativi di riforma portati avanti da Berlusconi e Renzi, invece, la situazione era ben diversa. “Nei referendum precedenti non c’era possibilità di distinguere tra i vari aspetti“, conclude. “Quello attuale è un quesito semplice, cui è più facile rispondere con un sì o con un no”.
Ben diversa è, invece, la posizione espressa sempre su Repubblica dell’ex senatore Massimo Villone, oggi a capo del Comitato per il No. “Il taglio dei parlamentari non si può ridurre a una questione di numeri, ma tocca la rappresentatività stessa dell’istituzione parlamentare, cioè la ragione per cui il Parlamento esiste”, spiega sempre al quotidiano romano. A suo parere, se passasse il Sì, “in molte Regioni piccole e medie andrebbero soprattutto in Senato due, forse tre forze politiche, lasciando senza voce un’ampia percentuale, stimabile anche fino al 15 o 20% del corpo elettorale. Con l’inevitabile conseguenza di un disallineamento con la Camera dove le stesse forze, invece, riuscirebbero ad avere una congrua rappresentanza”. Da qui la necessità non solo di varare una nuova legge elettorale, ma anche un’ulteriore riforma della Carta per “abolire la base elettorale regionale per il Senato”. Correttivi che Villone ritiene indispensabili per non “imbavagliare i cittadini”.
Sono proprio i correttivi l’argomento che potrebbe sbloccare il Pd a una posizione ufficiale per il Sì. Ieri il segretario Nicola Zingaretti ha rimarcato questo tema, spiegando che l’ok dei dem può arrivare “parallelamente a modifiche regolamentari”. Facendo appello al premier e con una linea non distante da quanto annunciato domenica da Di Maio. Il ministro ha parlato di “inizio di un percorso con il Sì al referendum”. Il partito democratico, che ha votato compatto per il taglio nell’ultimo passaggio parlamentare, ora insiste sul rispetto degli accordi “più complessivi” che erano stati presi nella maggioranza. Sempre ieri, due esponenti del partito come l’ex segretario Maurizio Martina e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini, si erano espressi per il sì: “E’ una riforma che la sinistra insegue da 30 anni”.