Società

Il Ponte Morandi è stato ricostruito, non le zone terremotate. Eppure hanno molto in comune

di Andrea Taffi

Che cosa hanno in comune un ponte e una casa? Apparentemente niente. Se però quel ponte e quella casa sono un ponte e una casa crollati, buttati giù dall’incuria o da un terremoto; se quel ponte unisce due parti di un’arteria fondamentale della rete stradale di un Paese, e se le case crollate non sono una, due o tre, ma metà di un paese (di paesi) nel nord, nel centro e nel sud d’Italia, beh, allora quel ponte e quella casa hanno molto in comune.

Soprattutto entrambi hanno un’esigenza fondamentale, un’esigenza che è loro e dunque nostra, di cittadini che traversano quel ponte e che (soprattutto) abitano quelle case, quei paesi.

Il crollo di un ponte e il terremoto sono due eventi tragici per quelle persone che hanno perso la vita percorrendolo in auto o abitando le case crollate. Ma il dramma (purtroppo) non si ferma qui, perché anche i familiari delle vittime soffrono in prima persona di quei crolli, e anche il Paese ne risente, non solo per le ferite al proprio territorio, ma anche per la sua (e per la nostra) economia.

Il ponte Morandi è stato ricostruito in due anni dal suo crollo, in deroga a tutto, persino al Covid-19. Un grande architetto che ne ha fatto il progetto e un cantiere continuo, alimentato da un fiume di soldi che ha potuto scorrere libero da intoppi burocratici di sorta, hanno reso possibile il miracolo. La ricostruzione del ponte Morandi è stata la prova provata che l’Italia potrebbe davvero essere un grande Paese, una nazione dove le cose che servono vengono fatte e fatte bene, in barba a burocrazia, ricorsi al Tar, sprechi.

Poi, però, guardi oltre quel ponte e vedi altro. O meglio: non vedi quello che, a distanza di quattro anni, avremmo ragionevolmente dovuto vedere: case, vie, piazze, insomma un paese, tanti paesi ricostruiti dopo essere stati distrutti da un terremoto, da un evento tragico, ma naturale.

Un ponte e una casa, dunque, hanno una cosa in comune: ciò che è stato fatto per un ponte dovrebbe essere fatto anche per interi paesi. La ricostruzione del ponte Morandi ha (secondo me) segnato un punto di non ritorno, quello che si fonda sul principio che volere è potere, che quando le cose si debbono fare si fanno e basta.

Sono ovviamente felice di avere assistito al “miracolo Morandi”, ma questa felicità si scontra con l’amarezza di non vedere seguire una ricostruzione dopo ogni terremoto. Le parole dei politici sono importanti, e possono anche essere rassicuranti, ma diventano irridenti quando crollano un secondo dopo essere state pronunciate, quando, cioè, quelle parole svuotano di significato concetti importanti come ricostruzione, ripartenza, resilienza, non abbandono di intere popolazioni lasciate invece sole a piangere i propri cari su macerie che rischiano di essere eterne.

Con il ponte Morandi l’Italia ha ridato forza, vigore e significato alla parola ricostruzione. Adesso io spero che quella parola traversi quel ponte e raggiunga tutte le zone terremotate del nostro Paese, affinché, anche lì la parola ricostruzione torni ad avere un senso.

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