di Luciano Messa
Ci avviciniamo al referendum sul taglio dei parlamentari nel quale voterò Sì perché (da uomo della strada) detesto i politici a prescindere. Però ci sono stati due momenti in cui la categoria mi ha suscitato compassione: il primo è stato intorno agli anni Novanta quando, – esauritosi lo spauracchio del Comunismo e spariti i vecchi partiti, sull’onda della rivoluzione di Mani Pulite – giornalisti e politici persero i loro punti di riferimento. Il politico non poteva più usare vecchi argomenti e vecchi slogan per cui l’intervistatore aveva facile gioco a incalzarli mettendone in risalto le contraddizioni con domande precise e circostanziate.
Lo ritenevo inutilmente crudele perché tutti noi diamo per scontato ed accettiamo che sia proprio del politico essere bugiardi (e questo è un bene perché, come diceva Voltaire, “Coloro che riescono a farvi credere a delle assurdità possono farvi commettere delle atrocità”). E nessuno di noi ha mai creduto alle loro promesse: “Un milione di posti di lavoro; rimpatrio di 600 mila migranti, chiusura dell’Ilva, flat tax ecc.” perché non si può fare una campagna elettorale affermando la verità: incertezze sul futuro, marginalità dell’Italia a livello internazionale, blocco degli stipendi ecc.
In quell’occasione l’empatia nasceva dai ricordi di scuola quando qualche professore godeva nel chiamare alla cattedra gli alunni impreparati (perché l’infame lo capiva!) ed infieriva cinicamente con inutili domande a cui si rispondeva con rossori, sudori, monosillabi e balbettii.
Poi le cose si sono evolute: la figura del leader predominò sul programma elettorale e si capì che la forma contava più della sostanza. Cambiò la propaganda e cambiò il giornalismo. I politici andarono a scuola di comunicazione preparandosi a (non) rispondere a qualsiasi domanda. I giornalisti, dal canto loro, si adeguarono sostituendo le domande con le invettive che ripetevano i concetti e gli slogan dei partiti di riferimento dei loro editori.
Il secondo momento di identificazione è più recente. Con la par condicio nei telegiornali assistiamo alla patetica esibizione di politici (spesso di secondo piano, poco avvezzi alla telecamera) che dritti come statuine del presepio, composti come un bambino che recita la poesia di Natale sciorinano il discorsetto nei tempi ristretti a loro concessi. Quando hanno sullo sfondo un muro o una parete disadorna, così impalati, evocano il dramma dei condannati alla fucilazione.
Si capisce subito che tutto è stato provato e riprovato e che non è mai stata buona la prima. Non fanno mai un gesto di troppo, quasi che il più piccolo movimento gli faccia perdere il filo del discorso. Credo si affidino in tutto e per tutto alle indicazioni dell’intervistatore: al suo “ciak” prendono un bel respiro e tutto d’un fiato ripetono la loro lezioncina.
Come quegli studenti (c’ero anch’io…) che, non avendo doti eccelse, imparano il capitolo a memoria con l’aiuto della mamma e si fanno interrogare per recuperare un brutto voto e mostrano tanta ingenua fiducia che il buon professore si impietosisce e non fa nessuna domanda, anche la più semplice, per il timore di vedere svanire da quei volti il giovanile, ingenuo, entusiasmo della speranza.
Se, come si prevede, al referendum prevarranno i Sì, dal prossimo Parlamento si spera spariranno tanti voltagabbana, salta-fila, ladri di polli, camorristi, magliari (o come amano definirsi “politici di lunga esperienza e immutata passione”). Ma ci mancheranno quelle tenere statuine del presepio (chissà se a San Gregorio Armeno ci hanno già pensato?) che come stelle cadenti attraversano i notiziari. E di loro manterremo un tenero ricordo.