La Corte penale del Cairo ha firmato ieri l’ordine di scarcerazione per Ibrahim Metwaly Hegazy, l’avvocato della famiglia Regeni al Cairo e membro della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf). Metwaly, 53 anni, è rinchiuso nel carcere di Tora dal 10 settembre del 2017 quando è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre stava partendo per Ginevra dove lo attendeva una vertice del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite. Questione di giorni e il legale dei Regeni dovrebbe tornare in libertà, riabbracciare la propria famiglia e, si spera, tornare al lavoro.

Nell’anno e mezzo intercorso tra il ritrovamento del corpo del ricercatore friulano lungo l’autostrada Cairo-Alessandria d’Egitto, il 3 febbraio 2016, e il proprio arresto, Metwaly si è occupato in prima persona dell’assassinio di Giulio Regeni e anche questo incarico potrebbe aver influito sull’arresto del legale. Aveva seguito le fasi iniziali della terribile vicenda, in particolare i ripetuti, e in alcuni casi assurdi, tentativi di depistaggio dell’indagine. La cautela nel maneggiare la notizia della sua liberazione deve essere massima visto il precedente, proprio nel caso dell’avvocato egiziano e fondatore di un organismo che si occupa della ricerca di persone scomparse dopo il dramma del figlio di cui da alcuni anni si sono perse le tracce. Il suo arresto, all’epoca, prendeva le mosse dal gruppo da lui fondato ‘Famiglie degli scomparsi in Egitto’, col sostegno di organizzazioni internazionali. Tra le accuse c’era anche quella di cospirazione con soggetti stranieri per danneggiare la sicurezza nazionale e pubblicazione di notizie false. Cautela oggi legata alla vischiosità non tanto della legge egiziana, quanto della sua applicazione. Il 14 ottobre scorso, infatti, la Corte aveva disposto la liberazione di Metwaly. Nel passaggio tra l’ordine e l’effettiva attuazione del provvedimento la Procura Generale aveva però creato un nuovo capo d’accusa, sempre legato a motivi insurrezionali e di presunto terrorismo. La scarcerazione saltò al tempo e da allora Metwaly è rimasto dietro le sbarre, nella sezione Scorpion II della famigerata prigione di Tora, la stessa dove sono rinchiusi Patrick Zaki, Alaa Abdel Fattah e altre decine di attivisti puniti per reati di coscienza. La stessa dove negli ultimi tre mesi e mezzo sono morti tre detenuti, tutti in circostanze poco chiare.

Tornando al provvedimento firmato ieri dalla Corte penale del Cairo, il giudice dispone la libertà vigilata per Ibrahim Metwaly. I dettagli non sono ancora noti, ma appare certo che si tratterà di nulla di troppo invasivo, probabilmente un paio di visite a settimana alla stazione di polizia competente per territorio di residenza. Nulla a che vedere insomma con la misura adottata nei confronti del fotoreporter Mahmoud Abu Zeid ‘Shawkan’ nel 2018, ossia cinque anni di regime di semilibertà, con l’obbligo di trascorrere 12 ore in una stazione del dipartimento di Giza dalle 18 alle 6.

Ora la questione centrale è legata ai tempi della scarcerazione, che potrebbero andare da un paio di giorni ad una settimana al massimo: “Dipende dalla decisione assunta dalla National Security, la sicurezza nazionale, l’organo da cui dipendono le fortune o i drammi delle persone incriminate in Egitto – sostiene un membro dell’Ecrf -. Tutto può succedere, ma questa volta confidiamo nella definitiva scarcerazione di Ibrahim. Un giorno che aspettiamo da quasi tre anni”.

Metwaly raccontò ai suoi avvocati di essere stato torturato nei giorni immediatamente successivi al suo arresto del settembre 2017, tra percosse, l’uso di scariche elettriche sul corpo e altre forme di violenza. Il legale dei Regeni ha trascorso la maggior parte della sua detenzione in una cella in isolamento. Nel luglio scorso Ibrahim Metwaly Hegazy, assieme a due colleghi egiziani anch’essi rinchiusi nelle carceri del paese, ha ricevuto un premio dall’Osservatorio internazionale degli avvocati. Da una buona notizia ad una di tenore decisamente diverso. Il direttore del Centro per gli studi sui diritti umani, una delle più importanti organizzazioni del settore in Egitto, Bahey el-Din Hassan, è stato condannato mercoledì a 15 anni di reclusione dal Tribunale penale del Cairo. La decisione ha provocato la reazione dei principali organismi che si occupano di diritti umani in Egitto, tra cui proprio l’Ecrf: “Si tratta di una sentenza politicizzata, un nuovo tentativo di punire i difensori dei diritti umani e imporre il silenzio a tutti gli egiziani. Tanta crudeltà per alcuni tweet di critica sulle violazioni commesse. Non resteremo in silenzio di fronte all’ennesimo sopruso nei confronti della libertà di espressione”. L’accusa nei confronti di Hassan sembra il solito copia/incolla: diffusione di notizie false, incitamento contro lo Stato e insulto alla magistratura.

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