La decisione dei Milwaukee Bucks di non giocare gara-5 del primo turno dei playoff Nba contro gli Orlando Magic è un atto politico gigantesco, scientifico e meditato. Dopo il ferimento di Jacob Blake da parte della polizia e l’omicidio di due uomini che protestavano per l’ennesima azione violenta di un agente nei confronti di un afroamericano, rifiutarsi di scendere in campo è una precisa scelta di campo, sposata dalle altre squadre e rivendicata sia da LeBron James, che del circus del basket americano è catalizzatore mediatico, che da Chris Paul, numero uno del sindacato dei giocatori. E altri boicottaggi arriveranno, come dimostrano le scelte di alcune squadre di baseball, calcio e della tennista Naomi Osaka.
Il fronte dei giocatori appare compatto: la corsa al titolo, già sterilizzata nel suo entusiasmo dalla pandemia che costringe le squadre a giocare nella “bolla” di Orlando a porte chiuse, è l’ultimo dei problemi in questo momento. E gli atleti sembrano intenzionati ad andare fino in fondo. Come raccontava nella scorsa notte uno dei reporter più informati sulle dinamiche Nba, Adrian Wojnarowski, la stagione è a rischio. Farla saltare per la battaglia anti-razzista, dopo gli sforzi messi in campo dalla lega per completarla nonostante l’emergenza coronavirus, sarebbe un messaggio dirompente.
Quale sarà l’impatto reale si vedrà, ma il campo vuoto con la scritta “Fear the Deer” in attesa di due squadre che non arriveranno mai è già un’immagine iconica e potente che possiamo paragonare al pugno alzato da Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico di Città del Messico nel 1968. Allora fu un braccio teso al cielo, oggi un’assenza più acuta presenza che si fa azione e riporta lo sport a giocare un ruolo di primo piano nelle tematiche politiche sfidando oltretutto gli interessi economici miliardari del mondo Nba, già messo alla prova dal caso Cina-Hong Kong nell’autunno scorso.
Imporre a una macchina da soldi globale come il basket americano non di prendere posizione o approvare l’uso di t-shirt in favore del movimento Black lives matter, cose peraltro a cui i vertici sono sempre stati molto disponibili dopo la morte di George Floyd, ma di fermarsi per una battaglia sociale è stata una scelta senza precedenti. Se i giocatori vorranno proseguire su questa strada lasceranno un segno nella storia dello sport e delle lotte per i diritti civili di fronte alla quale, forse, anche la politica americana, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, difficilmente potrà tacere.
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