E quindi il problema del giorno, problema serissimo, sono i trasporti. Il vertice di martedì tra ministri e rappresentanti delle Regioni riguardava appunto la gestione delle molteplici e affollate modalità di raggiungimento delle scuole. I treni, i pullman, gli scuolabus. Io non so, magari è solo perché leggo le notizie sulla scuola tutte insieme, ma ho la sensazione che ci si stia preoccupando molto di come entrarci e come uscirci. Cosa farci una volta dentro, sembra che sia per tutti meno interessante. O quanto meno è affar nostro.
Nei giorni scorsi ha tenuto banco l’esilarante bufala virale secondo cui, in caso di contagio, il pargolo sarebbe stato celermente prelevato dalle autorità competenti e sottoposto a cure acconce per poi essere riconsegnato alle rispettive famiglie una volta rimesso a nuovo. Ne è seguita una insurrezione digitale delle madri che temevano di vedersi sottratti i preziosi figlioli, quelle stesse madri che spero arriveranno sollecite a prendere all’uscita i figli febbricitanti. Che poi, secondo me, a qualcuno invece sarebbe pure piaciuta come soluzione, dopo mesi di coabitazione forzata con gli eredi minorenni.
Non sono fake news, invece, gli schemini pubblicati sui quotidiani che spiegano, in una decina di disegnetti, cosa fare in caso di sintomi sospetti, dalla chiamata del responsabile Covid (mi immagino la rissa a scuola per ottenere l’ambito titolo) fino al potenziale untore tradotto in un’aula apposita di contenimento. Una ragionevolissima coreografia da imparare per poter gestire al meglio l’emergenza, sempre che di emergenza di tratti e non di quotidianità, perché se conosco un po’ gli studenti, alla frase “oggi interroghiamo” si scateneranno accessi di tosse e starnuti a raffica.
E nel giorno della verifica ci saranno quelli con il volto affossato da due ore nel passamontagna di lana merinos per arrivare ad un dignitoso 38.2 di febbre che consenta lo scatenarsi dell’allarme rosso. Distinguere un reale sintomo da un “allupoallupo” diventerà competenza meritevole di apposito corso di aggiornamento professionale (sono certa che qualcuno ci abbia già pensato, tipo Accessi di tosse, espettorati e moccio al naso: conoscerli e riconoscerli con sicurezza, 230 euro di iscrizione, webinar in 6 lezioni ed esame finale).
Ma oltre a queste direttive necessarie, però, io mi chiedo sempre di più come sarà tornare ad essere in classe. E starci. Dentro. Dal vivo. In classi diverse, con ragazzi diversi, perché la scuola a quello serve, soprattutto: a imparare a stare insieme tra persone diverse. Ci saranno ragazzi insofferenti alle regole, ci saranno ragazzi più spaventati. Ci saranno ragazzi che hanno perso qualcuno. Ci saranno ragazzi che sentono in casa negare ad oltranza l’esistenza del virus. Ci saranno ragazzi che hanno approfittato degli ultimi mesi per dimenticare tutto, anche le tabelline e ragazzi che hanno letto l’impossibile.
Ragazzi seguiti, e fortunati perché seguiti, che sono rimasti al passo con il programma anche nei casi in cui qualcosa non è andato nel verso giusto. E ragazzi che hanno arrancato e faticato ed a cui poche giornate di recupero non restituiranno l’esperienza persa. Nelle aule allestite a norma di legge, con i banchi a rotelle pronti a sgommare, le mascherine e le mani appena igienizzate, ci saranno accese discussioni e necessarie spiegazioni e racconti e momenti di tensione ed estenuanti chiarimenti. Per far accettare una normalità diversa, per ritrovarsi.
Io credo che l’emergenza più grande, dopo quella dell’inizio in sicurezza, dopo le circolari e le linee guida, dopo le promesse e le paure, sia proprio questa: ricominciare. In classe, una volta chiusa quella porta. Ricominciare davvero.