Il primo vero grande blockbuster post Covid delude e lascia l’amaro in bocca. Dopo Interstellar e Dunkirk, Christopher Nolan non impressiona più, regista arido di una spy story action sterilmente teorica e per nulla goduriosa per gli occhi
Eccoci giunti al momento in cui non serve a nulla aver visto film per trent’anni, letto manuali di sceneggiatura e di critica, ma anche romanzi di fantascienza. Quando vedi Tenet, l’ultimo film di Christopher Nolan, più che seguire gli insegnamenti di Rogert Ebert o Manohla Dargis necessiti di una telefonata al fisico Carlo Rovelli. E quando l’immagine al cinema, o meglio quello che vedi e senti non basta a soddisfare cervello e palato, e ti tocca andare (oggi) su Google alla ricerca degli ultimi numeri dell’European Phisical Journal, per capire esattamente come potrebbe mai funzionare questo benedetto “algoritmo che inverte l’entropia del mondo”, concetto teorico alla base della narrazione e della messa in scena di Tenet, ecco che qualcosa nel blockbuster “intellectacle”, qui Warner, non ha funzionato.
Prima di tutto Tenet è un film girato da un regista (sceneggiatore, autore, produttore) emotivamente arido. Uno a cui interessa sversare di continuo le coordinate meccaniche di un personale intrattenimento cerebrale dimenticando piacere e godimento per il pubblico. Un cinema onanistico o più semplicemente sterile in opposizione all’ingordigia di un cinema oculare e crapulante. Certo anche Kubrick ci dava dentro parecchio sull’intrattenimento cerebrale, ma con la differenza, rispetto ai risultati di Nolan, di essersi inventato con originalità mondi (im)possibili a livello espressivo con una naturalezza e una competenza tra i generi più disparati da fare spavento.
Ma facciamo un passo alla volta perché uno straccio di trama va ovviamente accennato. E qui sono dolori. Con o senza Rovelli e l’European Phisical Journal. Al teatro dell’opera di Kiev (i luoghi in questo film contano zero, ma è lo stesso) sta per andare in scena un concerto, ma capiamo fin dalla terza inquadratura che l’edificio è accerchiato da forze dell’ordine in tenuta antisommossa pronte poi a sventare in pochi minuti un attentato terroristico. Tra di loro c’è un agente senza nome della CIA (John David Washington, figlio di Denzel, già visto in BlacKkKlansman) che deve salvare un contatto tra il pubblico, a sua volta prezioso perché in possesso di un affare di metallo che è parte di un oggetto che scopriremo essere stato disseminato nel passato da qualcuno che ha vissuto nel futuro (calma, calma, siamo solo all’inizio). Insomma, il Protagonista (con la maiuscola perché si chiama proprio così come nome proprio, in una vertigine metalinguistica da teatro sperimentale) mostra grande dedizione alla causa di protezione degli innocenti, finendo torturato e facendosi strappare tutti i denti ma vivo, tanto che l’ “agenzia” lo premierà facendolo diventare soggetto attivo di una missione/programma di cui lui stesso conoscerà solo dettagli parziali rispetto al senso del tutto (ve l’avevamo detto, siamo solo all’inizio). Il Protagonista si era però accorto che durante la lotta con i terroristi/agenti una pallottola sparata da una pistola aveva avuto una impossibile traiettoria di rientro nell’arma. Ecco che il nostro uomo, ripulito e rifocillato, verrà introdotto gradualmente da una scienziata ai misteri dell’ “inversione” (un po’ come quando a 007 spiegavano i gadget dell’Aston Martin), ovvero un algoritmo che attiva un processo fisico che inverte l’entropia degli oggetti o delle persone (“non cercare di capirlo, sentilo”, dice lei a il Protagonista, e noi qui dovremmo aver capito già tutto il film).
Chiaro, chi possiede quell’algoritmo governa i destini del mondo. Ora, prima che Il Protagonista e lo spettatore comprendano esattamente e vedano di cosa stiamo parlando, prima che girino il mondo (Mumbai, Tallin, la costa campana, ma tanto qui la differenziazione dei luoghi non vale nulla) ecco sciorinare gli asettici vettori/comprimari: Neil (Robert Pattinson), il collega fisico e altrettanto atletico per le scene d’azione e di risoluzione dei problemi (o quasi); la bella e filiforme mercante d’arte Kat (Elizabeth Debicki) – in rotta violenta con il marito magnate invincibile, ovvero il villan del film, il “russo” Sator (Kenneth Branagh in uno dei ruoli più tromboneschi della carriera) – algida bionda che permetterà al Protagonista di entrare in contatto proprio con l’avido Sator. Così tra il borbottio sinistro del compositore Ludwig Goransson (una pessima copia delle fanfare sontuose di Hildur Guonadottir), e gli abiti lindi e senza mai una piega (dlin dlon: c’è James Bond con lo smoking?) di ogni carattere in scena (perfino le guardie del corpo dopo essere state smazzate di brutto a mani nude), ecco che Tenet dopo circa 50 minuti comincia a far spazio all’esposizione visiva del principio (mica tanto) teorico dell’ “inversione”. In pratica, speriamo di non scrivere castronerie, ma concedetecelo dopo questo supplizio, i personaggi si muovono nel tempo, all’indietro, rivivendo accadimenti appena vissuti, ma senza costruire fantomatici scenari futuri. È nell’eterno presente, un presente continuo, esemplificato nell’inquadratura dei set speculari con una vetrata trasparente in mezzo a dividerli, che sia Sator, il Protagonista, Neil e Kat possono intervenire sugli eventi di sangue che salveranno o meno il mondo provando a correre in avanti nel tempo “attraversando” le scene già viste, ma riproposte all’indietro.
Capito vero? Guardate che poi vi toccherà a voi spiegarlo agli amici e la maledizione dell’inversione vi ammutolirà magicamente. Certo, Nolan ci ha abituati a costruire il suo cinema attorno alla variabile (manipolabile) del tempo. Ma mai come questa volta il regista inglese “esagera” nella tortuosità della simultanea contemporaneità dei secondi/minuti delle singole sequenze dove i singoli personaggi si incrociano con sé stessi in una mise en abyme narrativa e di senso che è più fioca scintilla mentale che sconvolgente scarica adrenalica. L’impianto da cinema d’azione è comunque preponderante rispetto all’intreccio spy con monumentali sequenze action tra cui quella del boeing che esplode e distrugge un hangar zeppo di quadri preziosissimi, o quella in cui un portavalori viene accerchiato da cinque automezzi e poi la sequenza si conclude all’indietro come inversione comanda. Solo che tutta questa profusione di mezzi si arena nelle secche di una atavica mancanza di pathos. E per rimanere dalle parti delle assonanze, in Tenet nonostante un tappetino di supereroi si cerca un Thanos della Marvel che non c’è. Come del resto manca una minima porzione di eros. Quella sensualità, o sensibilità, che Nolan, rispetto ai battiti e al vibrare dei corpi in scena, mantiene perennemente sottozero, nonostante la materia prima, come è sempre accaduto nei suoi film. Su Tenet, infatti, sei costretto a pattinarci in superficie.
Frastornato da personaggi che parlano tutti allo stesso modo e attori che rimpiccioliscono di fronte al disegno generale del filmone cerebrale. Tanto che l’unico momento davvero spassoso rimane l’apparizione fulminea di sir Michael Caine. Elegante humor british fino al midollo sovrasta ogni frase alla rovescia declamata oltre lo specchio come fossimo in un brano dei Black Sabbath (o di Elio e le Storie Tese). Sul pippone ecologista in sottofinale va poi definitivamente steso un velo pietoso.