Il 26 marzo, quando in Italia si registrano 8000 vittime, Matteo Renzi esige l’istituzione di una commissione d’inchiesta sull’impreparazione delle istituzioni contro il nuovo coronavirus. Rispondiamo al suo appello, sul numero del mensile FQ MillenniuM attualmente in edicola, ricostruendo cronologicamente le vicende che hanno condotto a quello che meriterebbe l’appellativo “CoronaGate”. Scoviamo in particolare una serie di documenti inediti dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Unione europea che evidenziano le falle strutturali dell’apparato che hanno reso l’Italia incapace di prevenire il peggio. E scopriamo un paradosso che probabilmente è sfuggito al senatore fiorentino ed ex-segretario del Pd. Il preludio al fallimento, di cui il nostro Paese condivide la responsabilità con gli Usa, l’Oms e gli altri Stati Ue, risale proprio all’epoca in cui Renzi era Presidente del Consiglio. Era lui formalmente il capofila della più grande coalizione internazionale mai costituita per arginare le minacce infettive. Peccato che il sodalizio non abbia centrato il suo scopo.

Corre l’anno 2014. Lo spauracchio dell’Ebola, che per un pelo non si è esteso al mondo intero, persuade i potenti della Terra a lanciare la Global Health Security Agenda (Ghsa). Promotore della Ghsa è l’allora presidente Usa Barack Obama. I 30 paesi firmatari (oggi divenuti quasi 70, affiancati da organizzazioni internazionali e ong) affidano ai tecnici del ministro della Salute italiano la direzione del Comitato direttivo della Ghsa. A reggere le redini è la ministra Beatrice Lorenzin. Il suo ruolo è assicurare l’avanzamento dei lavori delle diverse task force costituite in seno alla coalizione. La piattaforma multilaterale, guidata dall’Italia fino al gennaio 2019 (prima che la presidenza di turno quinquennale passi all’Olanda) funziona solo sulla carta. Durante la gestione italiana, la Ghsa manca di affiatamento e di soldi per potenziarla.

Nel 2017 un team di ricercatori sino-americani pubblica l’ultimo di una serie di studi che presagiscono un probabile ritorno in forze dei coronavirus Sars annidati nei pipistrelli (dopo la precedente epidemia del 2002 circoscritta in Cina). In quello stesso anno, Paolo Gentiloni subentra a Renzi a Palazzo Chigi, confermando Lorenzin alla Sanità. L’Italia, ancora al comando della Ghsa, partecipa a una nuova task force guidata dagli Stati Uniti che ha il compito di escogitare modelli di finanziamento sostenibili per gli arsenali anti-pandemici. In tre anni non vi sono sostanziali progressi.

I costi della non curanza sono anticipati nel settembre 2019 in un’analisi dell’Oms, secondo cui un investimento di 1,7-3 miliardi di euro ogni anno per rafforzare i sistemi sanitari permetterebbe di risparmiare 26 miliardi in danni imprevisti. Tale preventivo quasi coincide col calo del Pil italiano (27 miliardi) stimato da Ref Ricerche. Neanche tre mesi dopo che l’Oms ha profetizzato il conto salato da pagare in conseguenza di un’attesa e sottovalutata pandemia, il Covid-19 si fa strada a Wuhan.

Il Centro di controllo sulle malattie degli Stati Uniti ha da anni un ufficio distaccato nella Repubblica popolare con la quale, peraltro, collabora nell’ambito della task force Ghsa impegnata a rafforzare le capacità dei laboratori di intercettare specie microbiche potenzialmente nefaste. Dal 2018 Washington ha intrapreso una simile cooperazione anche col Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) nell’ambito della task force transatlantica sulla resistenza anti-microbiologica. C’è da chiedersi perché il Covid-19 sia allora sfuggito ai radar.

Una parziale risposta è nelle conclusioni, finora mai pubblicate, di un incontro ad alto livello tra i dirigenti nazionali organizzato dall’Ecdc nel marzo dell’anno scorso. Leggiamo nero su bianco: “riduzione dei finanziamenti e delle risorse umane”, “sorveglianza dei virus negli animali non sufficiente per un allarme tempestivo in caso di minaccia alla salute umana” e altre preoccupazioni che fanno eco ai ritardi già denunciati nel 2017 dall’Oms. L’attuale presidente del consiglio Giuseppe Conte pare giudicare l’avvenuto disastro come un evento ineluttabile, affermando su Repubblica dell’11 giugno che “non c’era un manuale da seguire nella gestione della crisi, ma solo decisioni da prendere giorno per giorno”.
La sua dottrina del coprifuoco totale, che l’Italia si vanta orgogliosamente di aver esportato all’estero, smaschera in realtà l’architettura fallimentare che il premier ha ereditato da chi ha governato prima di lui: non solo Renzi.

Ravvolgiamo il nastro. Siamo nel 2009. L’Oms chiede ai governi di rafforzare i loro piani pandemici traendo lezione dall’influenza suina (H1n1), appena sedata. Per di più, nel 2013 raccomanda loro di integrare i piani con azioni di contrasto rivolte a un’ampia gamma di possibili malattie, oltre all’influenza. Renzi e i suoi predecessori e successori fanno finta di nulla. Nel 2017, i nodi vengono al pettine. L’Ecdc, agenzia Ue competente in materia di salute pubblica, si accorge che il piano italiano è rimasto fermo al periodo pre-2009, come d’altronde i piani della maggior parte degli altri Stati membri. L’Ecdc e l’Oms stilano una pagella, ottenuta in via confidenziale da FQ MillenniuM, che colloca l’Italia tra i peggiori della classe. Al tempo stesso, forniscono linee guida e attività di formazione per aiutare i governi a rafforzare le capacità di risposta.

Dall’esame dell’Ecdc emerge che quasi tutti i piani mancano di misure idonee a proteggere gli individui più vulnerabili e a garantire un coordinamento transnazionale. Non a caso il Covid-19 seminerà vittime soprattutto tra gli anziani e i malati cronici e gli Stati membri agiranno in ordine sparso, chiudendo le loro frontiere e confinando la loro popolazione a cascata. In particolare, dalla valutazione dell’Ecdc e dell’Oms risulta che il piano italiano risulta sprovvisto di un sistema d’informazione rapida tra autorità sanitarie, medici e infermieri, di una metodologia per accertare rapidamente i primi casi di contagio e della capacità di effettuare test in laboratorio e assistere i pazienti in situazioni di sovraccarico.

L’obsolescenza dei piani nazionali stride con la normativa comunitaria del 2013 sui rischi sanitari transfrontalieri. Questa prevede che gli Stati membri comunichino le variazione dei loro piani ogni tre anni e che, inoltre, facciano scorte comuni di farmaci e indumenti protettivi in vista di eventuali pericoli epidemici. Il problema è che la normativa vigente non da poteri di coordinamento vincolanti alla Commissione europea. L’intervento in materia sanitaria resta prerogativa nazionale.
Solo nel mezzo della disfatta, l’Italia e i suoi partner europei ordinano insieme guanti e mascherine, ma l’infezione è ormai dilagata nelle strutture sanitarie e nelle case di cura.

Il piano pandemico italiano resta tutt’ora un mistero. Il sito del ministero della Salute riporta un aggiornamento al dicembre 2016, ma il contenuto pare immutato rispetto al 2010, come indicato peraltro nel sito dell’Ecdc. È anche dubbio se il piano sia stato attivato o meno, come chiedeva l’Ecdc alle prime riunioni del Comitato di sicurezza sanitaria Ue nel periodo in cui esplodevano i contagi in Nord Italia. Il Comitato, presieduto dalla Commissione europea, ha riunito a più riprese i rappresentanti degli Stati membri per fronteggiare l’emergenza in modo unitario.

Ultimo atto. Tra fine febbraio e inizio marzo, ossia nel periodo compreso tra il ricovero del paziente zero nella cittadina lombarda di Codogno e il blocco nazionale imposto dal governo, l’Oms e l’Ecdc conducono un’indagine congiunta in Italia. E scovano la causa principale della disfatta: il non rispetto degli standard internazionali per la raccolta locale dai dati e la loro disordinata comunicazione a livello centrale. Il rapporto conclusivo, che abbiamo potuto consultare, afferma che questa inadempienza «ha reso difficile tracciare un quadro chiaro sulle catene di trasmissione e le caratteristiche epidemiologiche e cliniche dei casi, indebolendo la capacità di valutare il livello di rischio nel paese».

A FQ MillenniuM risulta che finora solo la Germania, insieme forse qualche Paese del Nord Europa, abbia regolarmente attuato e aggiornato le proprie disposizioni nazionali secondo i dettami dell’Ecdc e dell’Oms. C’è da chiedersi se i documenti da noi scoperti passeranno al vaglio della Commissione d’inchiesta in Lombardia, sperando che continui i suoi lavori nonostante il debutto intralciato dalle schermaglie politiche e dalle dimissioni della sua presidentessa Patrizia Baffi, sponsorizzata da Renzi, che in tre mesi di tempo non si è degnato di rilasciarci commenti così come Beatrice Lorenzin tutti gli altri personaggi italiani interpellati su queste vicende.

Leggi l’inchiesta completa su FQ MillenniuM di Agosto, in edicola e in versione digitale

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