Durante i giorni di “Occupy Wall Street”, il movimento statunitense critico verso la diseguaglianza economica e sociale e più in generale verso gli eccessi del capitalismo finanziario (rappresentato simbolicamente e non, appunto, da Wall Street), si era imposto uno slogan simpatico ed incisivo: “You don’t hate mondays, you hate capitalism.” A fare schifo non è la tua vita, il tuo lavoro, il tuo ufficio e i tuoi lunedì, ma un sistema economico e valoriale fortemente sbagliato in uno stadio agonizzante della sua esperienza storica.
E da qui si deve partire per fare un’analisi sensata del fenomeno Red Bull nel mondo del calcio, perché solo l’aver compreso la necessità di una lente d’ingrandimento messa a fuoco su questo sistema marcio nelle sue fondamenta può prima di tutto sgomberare il campo d’analisi da tutta quella retorica insopportabile del “bel calcio di una volta” (quello di Cecchi Gori e Tanzi?) e permetterci di capire che non discutiamo di una squadra di calcio, discutiamo del sistema.
Quando parliamo degli investimenti di Red Bull nel calcio parliamo, in realtà, di una costellazione di squadre sparse in tutto il mondo. In Europa troviamo le esperienze di Salisburgo (e Anif) e Lipsia, che alla fine dei conti risulteranno anche i progetti che sono riusciti ad imporsi più convintamente, alle quali vanno aggiunte le squadre di New York, Campinas (Brasile) e Sogakope (Ghana).
A Salisburgo, dove tutto è iniziato, nel 2005 Red Bull acquisisce una quota di minoranza dell’Austria Salzburg, nel girone di Coppa dei Campioni del Milan nel 1994-95, ma riesce comunque a controllare di fatto la società imponendo un pesantissimo rebranding del prodotto sulla linea di ciò che l’azienda aveva già sperimentato in Formula Uno: viene cambiato il logo (che diventano i due celebri tori simbolo dell’azienda), vengono cambiati i colori (dal viola, colore del club dal 1933, si passa al bianco-rosso), viene cambiato lo stadio (dal piccolo Lehener Stadion si passa alla futuristica Red Bull Arena) e il nome (Red Bull Salzburg da quel momento).
Curiosa anche la storia del piccolo Union Sportklub Anif, club dell’omonima cittadina nel salisburghese, che viene acquisito e trasferito nel quartiere di Liefering (infatti adesso Fussballclub Liefering), e, oltre a subire le identiche dinamiche dell’Austria Salzburg, viene anche di fatto annullato e reso la squadra riserve della neonata squadra made in Red Bull.
A Lipsia invece il progetto Red Bull si scosta dal modello divoratore capitalista di un’altra idea di calcio – come quella degli Squinzi in Italia, vista con il Sassuolo. Non si punta alla provincia per un pubblico più facilmente addomesticabile, infrastrutture più facili da ottenere e meno protagonisti con i quali spartire la torta. Qui troviamo un bacino di utenza elevatissimo e uno stadio già pronto, costruito per i Mondiali 2006, e inoltre l’opportunità di dare al vecchio blocco dell’Est l’opportunità di avere una squadra competitiva ad alti livelli.
Il pesante rebranding però è identico in Austria come in Germania, nonostante qualche bastone tra le ruote: viene acquisito il Ssv Markranstädt, club di quinta divisione sacrificabile sull’altare del profitto (non per i suoi tifosi evidentemente, che provarono a far fallire la trattativa addirittura cospargendo il campo da gioco di diserbante), ma la Federcalcio tedesca impedisce alla Red Bull di adottare il logo dell’azienda come logo del club e, soprattutto, di utilizzare la denominazione Red Bull nel nome della squadra.
I tori rossi vengono dunque stilizzati e impercettibilmente modificati, mentre il nome della squadra diventa RasenBallsport Leipzig (“Sport della palla sul prato” Lipsia, dove però la formula abbreviata risulta Rb Leipzig. Rb come Red Bull, guarda caso). Mettendo poi le quote di società a prezzi folli per il calcio tedesco, l’azienda austriaca riesce ad eludere anche la legge del 50+1, che impedisce ad un unico soggetto di essere proprietario di maggioranza.
Da quel momento il calcio a Lipsia è stato al centro di strepitosi successi impossibili da negare, come dimostrato dalla semifinale di Champions League raggiunta nell’edizione 2019-2020. Tutto questo a che costo? Quello di un fallout nucleare sulla rappresentatività del calcio, sul suo legame con il territorio, sulla tradizione sportiva e comunitaria che uno stemma si porta dietro.
Emblematica la vicenda di Andreas Ulmer, terzino del Red Bull Salzburg che nel 2016 si è giocato un secondo turno preliminare di Champions League contro il Fk Liepaja con la maglia del Rb Leipzig, accorgendosi dell’errore solo a partita in corso. Stessi colori, stesso logo, 600 km di differenza. È il capitalismo, baby.