È precipitato dal tetto del centro profughi di Medenine, dove in centinaia sono in attesa, da mesi, di rientrare nei corridoi umanitari verso i Paesi europei. Ma è una strada difficile e lunghissima. "Molti miei amici - spiega uno degli ospiti - hanno preferito tornare in Libia e cercare di salire su una barca diretta in Italia"
Yousif lunedì pomeriggio stava giocando con altri bambini e si era spinto sul tetto di uno degli edifici che compongono il centro di accoglienza dell’Unhcr a Medenine, città tunisina ai margini del deserto del Sahara e a pochi chilometri dal confine con la Libia. L’accesso a quel tetto doveva essere impedito, invece il bambino è riuscito a spingersi fin lì per poi cadere accidentalmente nel vuoto. È morto così il piccolo di origine etiope, 3 anni non ancora compiuti e passati quasi tutti vagando dal suo paese al nord Africa assieme ai genitori a caccia del pass per entrare in Europa.
Il volo, almeno sette metri, non gli ha lasciato scampo. Il bambino ha battuto terra col capo, il trauma cranico è stato devastante e i soccorsi si sono rivelati inutili: “Avevamo chiesto più volte ai gestori del centro di chiudere l’accesso a quel tetto – racconta una giovane mamma di origini ivoriane ospitata nel foyer di Medenine – perché era troppo pericoloso, o quanto meno di mettere un addetto alla vigilanza”. A dare l’allarme sono stati gli altri ragazzini che si trovano ‘reclusi’ assieme alle loro famiglie nel foyer dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. Centinaia di persone protette, ma anche esasperate da mesi, anni di attesa per ottenere la firma sul provvedimento di resettlement e rientrare quindi nei corridoi umanitari verso i Paesi europei, in particolare Svezia, Francia, ma anche l’Italia.
Yousif e i suoi genitori rappresentano una delle centinaia di famiglie in transito all’interno del centro per l’accoglienza dei migranti. Una storia drammatica ed esemplare. Al momento della tragedia di Yousif, con lui a Medenine c’era soltanto il padre, mentre la madre in questo periodo si trova in Libia. Il nucleo familiare diviso, tra svariati tentativi di riuscire a raggiungere le coste italiane su un barcone e la via più sicura, ma anche più lenta, del corridoio umanitario. Il ricongiungimento familiare non così semplice da attuare, nonostante Medenine disti meno di 170 chilometri da Zuwara, il centro costiero libico punto di partenza del grosso delle imbarcazioni che si tuffano nel canale di Sicilia.
La costante instabilità in cui versa la Tripolitania rende il transito nella zona ad ovest della capitale un terno al lotto, col rischio di finire nelle mani di bande dedite al traffico di esseri umani legate alle milizie pro e contro il Gna (Governo di accordo nazionale) e la leadership del presidente Fayez al-Sarraj. Negli ultimi due anni, in particolare da quando il conflitto in Libia si è fatto più cruento, migliaia di migranti subsahariani sono scappati verso la Tunisia, accolti nei centri gestiti dall’Unhcr e dalla Mezzaluna Rossa. La Tunisia punto di arrivo sicuro dove poter chiedere asilo e tentare la via del resettlement. Purtroppo il percorso si è rivelato tutt’altro che virtuoso, le promesse di un trasferimento definitivo in Europa ridotto ad una chimera. Da qui il viaggio a ritroso della maggior parte dei profughi, desiderosi, dopo anni in cammino, di tentare la sorte.
“Molti miei amici hanno preferito tornare in Libia e cercare di salire a bordo di una barca diretta in Italia – racconta uno degli ospiti del foyer di Medenine che preferisce restare anonimo -. Unhcr ha promesso e continua a promettere, ma sono pochissime le persone che sono riuscite e lasciare il centro d’accoglienza. Il tempo passa e la vita qui dentro è sempre più difficile, le condizioni non sono buone, ricevere cibo è difficile, siamo lasciati al nostro destino. Vivere nel centro sta diventando sempre più difficile, il personale di Unhcr è assente, nessuno che risponde alle nostre richieste, alle lamentele. La responsabile del centro è sempre assente e quando si trova qui fa di tutto per evitarci. Sì, penso anch’io di tornare in Libia e cercare un passaggio via mare. Appena riesco a farmi inviare dei soldi dalla famiglia ci riprovo”.
Il mondo intero si è commosso e indignato per la foto-simbolo che immortalava Aylan Kurdi, il bambino di 2 anni morto durante un naufragio nell’Egeo e il suo copro senza vita disteso sulla spiaggia deserta vicino Bodrum in Turchia. Era il 2015 e quella foto raccontava il dramma del conflitto siriano. A giugno del 2019 un’altra immagine di migranti colpisce le coscienze occidentali, quella di Angie Valeria, la bambina salvadoregna di 3 anni trovata morta nel greto del fiume Rio Grande, al confine tra Messico e Stati Uniti al fianco di suo padre. Adesso Yousif, morto mentre giocava dentro un campo profughi: l’ennesima vittima della piaga migratoria.
(immagine d’archivio)