“Il vostro voto deciderà se proteggere i buoni americani o soccombere a violenti anarchici, agitatori, criminali”. Con queste parole, disegnando una chiara alternativa tra legalità e violenza, tra difesa dei valori americani e distruzione del Sogno americano, Donald Trump ha chiesto di essere rieletto alla presidenza degli Stati Uniti. Trump ha parlato dal South Lawn della Casa Bianca. Un discorso lungo il suo, più di un’ora, in cui ha minuziosamente recitato i successi della sua amministrazione: nella creazione dei posti di lavoro, nella riduzione dell’immigrazione illegale, nello scontro commerciale con la Cina. Ci sono voluti oltre 30 minuti perché Trump arrivasse a parlare dell’emergenza sanitaria che ha fatto oltre 180 mila morti negli Stati Uniti. Di fronte a lui, oltre un migliaio tra sostenitori, attivisti, politici, familiari: quasi tutti senza mascherina e senza rispettare le regole di distanziamento sociale. Come a dire: il Covid-19 è una cosa del passato.
Nell’ultima serata della Convention repubblicana, e nel discorso finale di Trump, è risuonato forte un tema: quello del presidente, questo presidente, che solo può salvare il Paese da declino, caos, illegalità. Tutta la Convention, più che la celebrazione delle sorti di un partito e la presentazione di un agenda per i prossimi quattro anni, è stata la giustificazione e la glorificazione della sua azione. È stato fatto di tutto per ingentilire la sua immagine. Hanno parlato i suoi collaboratori, soprattutto le sue collaboratrici, per raccontarne il suo lato più umano e affettuoso. Mike Pence, il vice-presidente, ha spiegato che “Trump è molto diverso, quando si spengono i riflettori della politica”. La figlia Ivanka ha narrato della sua “vulnerabilità”, all’arrivo delle notizie dei morti per Covid-19. Nessuna Convention moderna ha mai messo più enfasi sulla necessità di sollevare il proprio candidato dalle accuse di insensibilità e arroganza.
In questo senso va interpretato anche un altro elemento. Questa è stata la Convention repubblicana che ha sicuramente visto la presenza più cospicua di afro-americani. Solo ieri sera, nella serata conclusiva, sono stati tre i neri che hanno magnificato l’azione di Trump: Ben Carson, il suo segretario allo “Housing and Urban Development”, ha spiegato che il presidente non è razzista: “Accetta neri ed ebrei nel suo club in Florida”; Alice Johnson, una ex detenuta graziata da Trump e diventata un’attivista per la riforma della giustizia, ha detto che “ lui mi ha cambiato la vita”; infine Ja’Ron Smith, consigliere della Casa Bianca per la politica interna, ha raccontato come Trump lo abbia scoperto mentre faceva il caddy sui campi da golf e abbia creduto nelle sue doti. “Ho visto la vera coscienza di Trump”, ha detto Smith, secondo cui “ogni questione importante per la comunità afro-americana è una priorità del presidente”.
La costruzione di un Trump attento ai diritti dei neri – “capace di fare per gli afro-americani quello che nessun altro presidente ha fatto”, hanno detto diversi oratori – è servita per stemperare l’affondo del presidente nel suo discorso finale. Qui non è risuonato alcun accenno di comprensione per chi protesta in queste settimane per le strade d’America. Nessuna dimostrazione di simpatia da parte di Trump per chi eredita una storia di oppressione e sofferenza. Nessuna allusione più o meno esplicita alle vittime di questi mesi: l’ultima, Jacob Blake, e prima di lui George Floyd, Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, LeGend Taliferro. “Queste elezioni diranno se vogliamo difendere lo stile di vita americano, o se permetteremo a un movimento radicale di smantellarlo e distruggerlo. Ma non avverrà”, ha detto Trump. Tutto il movimento che in queste settimane protesta nelle città americane è stato assimilato ai “radicali e saccheggiatori”. Di fronte all’illegalità imperante, Trump si è proposto come baluardo di “legge e ordine”. È un calcolo politico pericoloso, che potrebbe rivolgersi contro il presidente – chi altri avrebbe dovuto in questi anni difendere la “legge e l’ordine” se non il presidente in carica – ma che ha un chiaro obiettivo: quello di raccogliere voti e consensi tra la borghesia soprattutto bianca e moderata dei sobborghi, che guarda con preoccupazione alle proteste di questi mesi.
Già nel 2016 Trump aveva impostato il suo discorso di accettazione della candidatura repubblicana sull’“American carnage”, il massacro che l’America di Barack Obama aveva prodotto per le strade della nazione. “Il crimine e la violenza che oggi segnano il nostro Paese arriverà presto a una fine. Con l’inizio della mia presidenza, il 20 gennaio 2017, la sicurezza verrà restaurata”. Il tema è dunque tornato ieri sera, praticamente identico, associato però al nuovo candidato democratico alla presidenza, Joe Biden. Mentre Biden, nel suo discorso alla Convention democratica, non aveva mai citato per nome il presidente, Trump ha attaccato il rivale con toni apocalittici. “Biden non è il salvatore dell’anima americana – ha detto -, è il distruttore del lavoro degli americani e, se gli darete una chance, sarà il distruttore della grandezza americana”. L’immagine del candidato democratico ha oscillato tra debolezza e incompetenza. È debole sul crimine, ha detto Trump, il suo appoggio a politiche indulgenti produrrà “orde di criminali in libertà nelle vostre strade e nei vostri quartieri”. Biden, a giudizio del presidente, sarebbe anche il fantoccio della sinistra più radicale. “Vi vuole tenere all’oscuro di tutto – ha detto -, e lavorare con Bernie Sanders all’agenda più estrema degli ultimi anni”. Questo è stato del resto un tema che ha percorso tutti i quattro giorni della Convention. Da un lato ci sono i veri patrioti, dall’altro i socialisti che vogliono distruggere il Sogno americano.
Ci sono voluti, come si diceva, 33 minuti prima che il presidente arrivasse al tema dell’emergenza sanitaria. Anche qui nessun tentennamento, nessun ripensamento di quanto fatto. “Abbiamo seguito fedelmente i dettami della scienza”, ha detto Trump. “A nessun americano è stato negato un tampone, anzi abbiamo fatto più tamponi che qualsiasi altro Paese. I respiratori sono arrivati ovunque negli Stati Uniti”. Trump ha sempre parlato del coronavirus al tempo passato, come se fosse qualcosa di ormai concluso. Tutta la Convention è stata del resto un tentativo di minimizzare gli effetti della gestione secondo molti disastrosa dell’emergenza sanitaria. Pochi interventi hanno contenuto accenni alle vittime della pandemia. Molti dei discorsi sono stati fatti “in presenza”, dall’arena di Charlotte, sede ufficiale della Convention, o dalla Casa Bianca. Anche ieri Trump ha parlato di fronte a un migliaio di persone, più volte riprese dalle telecamere ad acclamare il presidente, senza rispettare alcuna prevenzione sanitaria. La “scomparsa” del virus dall’orizzonte della Convention repubblicana serve del resto a creare una realtà alternativa, in cui appunto vittime e crollo dell’economia non esistono. La realtà è diversa. Dall’inizio della convention, lunedì, sono stati oltre 3000 gli americani morti per le conseguenze del coronavirus: più dei morti negli attentati dell’11 settembre.
In conclusione, si è trattato di un discorso, e di una Convention, in cui Trump è emerso come l’assoluto protagonista. Il partito repubblicano è stato praticamente dai passati quattro giorni. Assente il tema delle sfide di Camera e Senato. I delegati della Convention hanno persino rinunciato a votare un documento programmatico, la cui stesura è stata rimandata al 2024. Tutto è ruotato attorno al presidente e alla sua personalità. A testimoniare sulle sue doti sono arrivati uno stuolo di parenti vicini e lontani, amici, collaboratori, preti e rabbini, ex ostaggi, star dello sport, celebrità televisive. La Casa Bianca – uno spazio pubblico e federale che dovrebbe essere tenuto fuori dallo scontro politico – è stato scelto come palcoscenico privilegiato dello show presidenziale. Con l’ampio spazio dato alla moglie e ai figli, è persino emersa l’idea di una possibile “dinastia Trump”, che influenzerà a lungo il corso della politica americana. Il tutto per celebrare un presidente che si pone ora come una sorta di “re taumaturgo”. Il solo capace di salvare l’America dal caos e di restituirle l’antica grandezza.