C’è un autentico fervore attorno agli auspici dell’Unione Europea per un impiego dell’idrogeno verde (cioè prodotto per idrolisi da rinnovabili) all’interno di un profondo rifacimento del sistema energetico continentale. Naturalmente, essendo uno dei caposaldi della riconversione ecologica, le lobby e i poteri economici dei vari settori si stanno già scontrando aspramente a favore del cambiamento o della conservazione.
La competizione – ovvero lo scontro – maggiore è tra uno spostamento deciso verso i vettori elettricità e idrogeno rispetto al mantenimento di un ruolo massiccio del metano in una lunga e perniciosa fase di transizione. Ho già trattato in post precedenti la questione e accreditato la scelta del superamento definitivo del gas confortandola con il suffragio di studi recenti e assai prestigiosi.
Naturalmente, la tragedia della pandemia in corso ha reso ancor più stringente una scelta che non aggravi le condizioni climatiche, di salute, di inquinamento derivanti dalla combustione di carbone, gas e petrolio. Ora si tratta di mettere urgentemente sul tavolo piani di fattibilità esemplari laddove i danni dell’assetto energetico precedente ha maggiormente martoriato i territori.
La situazione di Civitavecchia è per questioni oggettive (un carbonifero da tempo insostenibile) e per una collocazione geografica favorevole (uno snodo logistico con un porto al bordo del terreno della centrale da smantellare), da trattare con priorità assoluta, anche perché può godere della presenza di una elevata coscienza diffusa tra la cittadinanza, sostenuta da comitati locali per le rinnovabili e contro i fossili, nonché dalla presenza di grande attenzione tra gli studenti preoccupati per il loro futuro. A quanto ne so, la stessa Amministrazione locale e la Regione Lazio risultano informati delle prospettive di riconversione aperte.
Ora si pone una questione cruciale, che spesso ha privato il nostro Paese di occasioni straordinarie. Ne so qualcosa da quando la Fiat e la Giunta Lombarda, nel primo decennio del 2000, hanno fatto saltare la riconversione dell’Alfa Romeo di Arese ad un progetto di mobilità sostenibile che avrebbe anticipato la svolta in corso sul traporto “dolce”. La questione riguarda i tempi e l’accelerazione delle decisioni da prendere per evitare lo smacco della destinazione dei fondi europei ad altre nazioni più sollecite nell’avanzare progetti innovativi realizzabili.
Per ora in Italia Centrale è stato avanzato un piano di Aecom per la ricostruzione delle aree terremotate nel 2016 attraverso quattro macro-aree di intervento, con produzione e utilizzo di idrogeno verde tra l’Appennino abruzzese e i territori coinvolti nel sisma del 2016, l’idrogenizzazione delle ferrovie abruzzesi, compresa quella che collega Fiumicino alla costa adriatica.
Tutto bene, a meno che, tra qualche anno, non accada il paradosso di ritrovarci a pagare alla multinazionale americana Aecom l’idrogeno ed i servizi da questa prodotti ed implementati grazie ai soldi destinati al Recovery Fund da loro utilizzati! Qui una domanda sorge spontanea: ma perché aziende italiane, specie quelle a maggioranza e controllo pubblico tipo, Enel, Eni, Snam etc. non hanno pensato loro a sviluppare questi progetti?
Così Enel a Civitavecchia e in Italia rischia di perdere il treno dell’idrogeno. Perché invece non rilancia anche per qualità e quantità occupazionale una città che tanto ha contribuito all’economia del Paese, subendo impatti, diseconomie e purtroppo anche malattie?
Bonifichi e sviluppi, insieme ad altri partner tecnologici, un centro di ricerca di energia sulle fonti rinnovabili di frontiera, anche rivolte alle attività portuali, mentre l’area della centrale smantellata diventi il sito di produzione fotovoltaico di idrogeno verde, con solare ed eolico on ed off-shore così da fornire elettricità e idrogeno a tutte le attività di prossimità.
il tessuto economico è da troppi anni logorato dalla monocultura energetica, che ha portato la città alla subalternità alle scelte dell’Enel, subendo da tempo, per di più, il pesante inquinamento dovuto al carbone. Ora il carbone è in dismissione, e oltre al danno viene proposta la beffa di una riconversione fossile a gas che oltre ad essere climalterante non è neanche lontanamente in grado di compensare l’occupazione persa dalla giusta dismissione del carbone.
Il porto, mai decollato come importante nodo logistico, è tra i primi porti del mediterraneo per attività crocieristica. La città subisce l’inquinamento delle grandi navi, ma per la sua economia il turismo crocieristico è di impatto minimo. Ed ora la pandemia ha dato il colpo finale anche a quel minimo impatto del turismo da crociera: rimane solo l’inquinamento delle navi ormeggiate.
Oggi Civitavecchia si trova indiscutibilmente ad essere area di crisi economica ed industriale, il progetto Idrogeno verde al posto del gas può essere la risposta in piena coerenza con le linee guida della Commissione Europea nonché con le condizionalità ambientali richieste per l’accesso ai fondi europei.
L’idrogeno così prodotto in particolare sul terreno dell’ex centrale a carbone e integrato e messo in rete con altri siti alimentati da rinnovabili (comprese maree, eolico e pompe di calore) sarà stoccato per un suo successivo riutilizzo come combustibile chimico per sistemi a fuel cell, con utilizzo nei trasporti e nella generazione di potenza, senza rilascio di CO2 e inquinanti.
Le norme europee, le regole del Recovery Fund e i piani di investimento da programmare renderebbero la centrale a gas di Civitavecchia, come tutte le nuove centrali a gas in via di costruzione, già obsolete prima di aver messo il primo mattone in opera. Non è un buon modo di utilizzare denaro pubblico, soprattutto nel quadro della situazione di crisi e degli impegni da prendere in Europa.
Con la riconversione qui prospettata si unirebbero risanamento ambientale e ripresa economica e ne uscirebbero avvantaggiati (win-win) una volta tanto sia i cittadini, che gli occupati, che le istituzioni, che le imprese, una volta tanto rispettose dell’ambiente e della salute.