di Valerio Mirarchi
Ha fatto molto discutere, un paio di mesi fa, la decisione di Vittorio Feltri di lasciare l’Ordine dei giornalisti a causa del fatto che tale Ordine da anni avrebbe cercato di “imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero”. Alessandro Sallusti ne ha fatto una questione di principio e ha paragonato l’Ordine dei giornalisti ad un “soviet del politicamente corretto”.
Non vorrei soffermarmi sulla questione della necessità o non necessità di un ordine di giornalisti nel nostro paese, quanto sulla questione più ampia del politicamente corretto. Tutti siamo a favore delle libertà di pensiero, di espressione e di stampa senza limitazioni e divieti. Perciò, in linea di principio, il concetto di qualcosa che limita queste libertà, non può che essere mal visto.
I media ce lo presentano come una forma di controllo che l’intera società opera sulle parole che ciascuno di noi dice: dunque una forma veramente radicale di censura; così l’essere politicamente scorretti è diventato un valore, una caratteristica equiparata all’anticonformismo.
Sennonché, in questi ultimi anni, sentendo ciò che molti giornalisti e politici dicevano a proposito di questo tema, ho maturato una convinzione che ha trovato sempre più conferme. E cioè che questo cosiddetto politicamente corretto non è quasi mai un freno alla libertà di espressione, ma semplicemente il meccanismo che la società occidentale ha sviluppato negli ultimi decenni per limitare la violenza verbale, violenza che talvolta può essere molto più grave di quella fisica.
Oggi più che mai è vero quel principio secondo cui la mia libertà finisce dove comincia quella altrui. Il concetto stesso di libertà di compiere un crimine non ha significato: non esiste la libertà di fare violenza fisica sull’altro, perché si minerebbe la sua integrità. Tutti siamo d’accordo su questo. Ma stranamente, quando il dibattito passa dalla violenza fisica alla violenza verbale, le opinioni si dividono; e così una parte di politici e giornalisti, pur non rivendicando il diritto di tirare uno schiaffo fisico al prossimo, rivendicano quello di tirare uno schiaffo morale, rifugiandosi nella libertà di espressione.
Secondo questi signori, il politicamente corretto limita la libertà di espressione di coloro che sui social affermano che lo sterminio degli ebrei è stato giusto e andrebbe completato; rientrano nella libertà di espressione le affermazioni del prelato polacco Marek Jedraszewski, che ha equiparato la comunità Lgbt ad una piaga; è libertà di espressione quella del rabbino israeliano Yitzhak Yosef, che ha paragonato le persone di pelle nera alle scimmie; ed è libertà di espressione, naturalmente, anche quella di Vittorio Feltri, che in una trasmissione televisiva ha affermato: “Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori”.
Io, invece, credo che la libertà di espressione sia una cosa molto seria e che non vada mai data per scontata; inflazionarla in questo modo, come fanno coloro che combattono il politicamente corretto, le fa perdere di significato e ci fa abbassare la guardia nel momento in cui potremmo correre il rischio di perderla.
Non nego che il politicamente corretto in qualche caso possa venire usato veramente per limitare la libertà di espressione; ma proprio per questo bisogna saper distinguere l’anticonformismo reale (ciò che va contro i pensieri acritici dominanti, per esempio la sessuofobia della società o le fedi che non vengono fatte analizzare razionalmente) dalle affermazioni misogine, omofobe o razziste, che sono frutto di ignoranza e vanno sempre stigmatizzate; l’idea che esista una libertà di offesa morale è un’aberrazione etica.
Io sostengo dunque che la lotta per la libertà di espressione vada fatta di pari passo alla lotta contro le discriminazioni delle minoranze e che la visione del politicamente corretto unicamente come limite alla libertà di espressione sia una deriva molto pericolosa della nostra società.