Guardavi attraverso gli scuri, nella stanza della creaturina. Fuori, la vita era noiosa, quella dei borghesi, impilati di tedio, per nemesi ottenebrati di sazietà, di carrelli della spesa, di compagnie di amici, la sera, il cinema, discorsi innocui, senza procurare disgusto, un modo di esistere senza scatenare l’obbrobrio collettivo. Tu restituivi una pietra d’inciampo. Era meglio evitarti.

La tua rivoluzione dal basso, con indosso uno Chanel. Lo spregio snob di una giovanetta immatura, con l’aggravante della pigrizia o di una forma di devozione alla propria sconsideratezza oggi – ammetterai – nauseante e per eccesso di superbia. La vita. Che tu non sapevi organizzare.

La vecchia zingara discuteva delle brighe del campo. Non chiamarla zingara. Lei era vecchia, ma astuta. Era vecchia da sempre, sembrava che quel viso fosse eterno e rovinato dai solchi del tempo eterno, non l’eternità che afferiva alle cose sopra il mondo, la perennità di una condizione morale, un cosmo morale, il viso della vecchia consumato dall’afrore del campo, della legna bruciata.

Chiedeva chiedeva. Un menghele, lo chiamano così, un pigolio ributtante. Non amavi gli altri, come li amava la creaturina. Tu non amavi nessuno, eccetto un criminale. Uno che faceva rapine, uno che trascinavi dai piedi, per strada, in una pozza di urina. Hai letto questo? Sì? Era Brandys? Limonov? Miller? Non ricordi. Hlasko?

Non ricordi.

A cento metri dalla casa della creaturina, una rissa di bosniaci, in un pomeriggio d’estate, interrompeva la placidità agonica del circondario. Tu guardavi fuori, la vita agonica. Il criminale finiva dentro. Gli scuri sbattevano d’un colpo. Uno strano vento, caldissimo, penetrò nella penombra. La vecchia si girò di scatto.

L’upupa della mattina, le cicale poi, ti ottundevano. Non ti assaliva la tristezza, non c’era luogo per la tristezza. Oscar suonava alla porta, il professore urlava di andare via. Oscar il bosniaco. La vecchia lo odiava. La vecchia era una macedone con una nidiata di figli che da adulti avrebbero concupito le nipoti. Da perdere il conto, da incasinarsi a contare gli incesti, le innaturalità.

Ho un termine giusto per te. Loser. Miserabile? Non proprio, perduta, fallita, non so. Ma il fallimento di cui ti parlo non appartiene a nessuna radice. Loser come i loser newyorkesi, nelle rampe maleodoranti di una casa occupata, una squat, sodomizzatori, sentimentali. Loser.

Non loro. Tu eri di un’altra pasta. Anche gli altri. I balordi. Balordi con i polpacci graffiati. Prurito insopportabile. Al club, la sera, era diventato un problema, il prurito era un segreto, non lo potevi nascondere tuttavia, sai, come l’amore. Azib ti guarda, ha un sorriso indulgente. “Ho una crema” ti dice, “domani te la porto: ti passa tutto”. Dice. Sei in cucina, china sui polpacci, la veste alzata. Il lavabo esonda di bicchieri.

Azib muore. Con i capelli rasati. Spazzava le strade, luride come un’aia di maiali. Era un cuoco marocchino, il cuoco sorridente, spada e melanzane? Ti piace?

Sì, rispondevi.

Non avevi bisogno di essere amata. Con le parole, intendo. Ti amava il balordo, con la sua veemenza, disonesto, osceno. Oggi, così blandamente, le cose ti accadono, ti sfiorano appena.

Il professore apre la porta. Oscar ha il naso spaccato. Ha imbrattato di sangue il pianerottolo, e rampa dopo rampa, imprecazione dopo imprecazione, nell’ordine, riassumeva la claque di moralizzatori in un gruppo compatto di favolosi caprioli: cavaliere interno 1; poliziotto del secondo piano; vigilante del piano rialzato.

Oscar non era finito dentro. Lui no. Lo guardavi con compassione, una compassione umana, dunque non buona, una compassione cattiva. Pensavi: fai marchette; vai con i pederasti. Fai schifo. Pensavi. Fai schifo a farti sodomizzare da gente così.

Conoscevi gente migliore?

Forse è per questo che non c’è un animo poetico che non fugga da te. Il poeta. Non hai il coraggio di restare, pensi oggi. Idiota. Aggiungi, nei tuoi monologhi logoranti. L’amore è quel che resta.

Sono piccole e brevi faccende, i tuoi amori di oggi non durano che un battito di ciglia. Tu propendi alla disperazione, raccogli un mucchio di parole altrui e poetiche.

Il criminale è un siberiano. Il centro della contesa è un orologio. Oscar è una checca, per tutti. Il criminale è un nazi. Lo sanno al parco. Dopo la rissa, la donna di Tomaszow Mazowiecki lo premia con una fellatio. La sua platea di imperdonabili applaude.

È una mostruosità.

Oggi pretendi l’amore di un poeta.

Il professore ti chiede: “Perché, ragazza mia?”.

Rispondi.

(continua)

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