Ci sono voluti 30 anni, ma il partito del capo incontrastato del Montenegro, Milo Djukanovic, ha perso la maggioranza nelle urne. Alle elezioni il Partito democratico dei socialisti – che ha guidato l’indipendenza dalla Serbia e l’avvicinamento alla Nato – vince di poco ma senza la possibilità di governare. L’opposizione filo-serba, zavorrata da omicidi, arresti e prevaricazioni, può festeggiare. L’Alleanza per il futuro del Montenegro annuncia di aver ottenuto 28 seggi e assieme alle altre forze di opposizione potrebbe imbastire una trama di governo se solo avesse l’appoggio dei piccoli movimenti delle minoranze. Al momento, però, non è ancora chiaro quando sarà annunciata la distribuzione finale degli 81 seggi del Parlamento.
L’esito del voto – Al Dps è andato il 35,12% dei voti (30 seggi), rispetto al 32,52% (28 seggi) conquistato da Per il futuro del Montenegro, principale cartello dell’opposizione che comprende anche le forze di ispirazione filoserba. Altre due formazioni schierate all’opposizione – La pace è la nostra nazione e Nero su Bianco – hanno ottenuto rispettivamente il 12,55% (10) e il 5,57% (4). Percentuali minori sono andate ai Socialdemocratici (4,09%), al partito bosniaco (3,81%) e a formazioni della minoranza albanese e croata. Le tre principali forze di opposizione, se si alleassero, potrebbero contare su 41 deputati, una maggioranza seppur risicata nel parlamento montenegrino di 81 seggi. Lo stesso Djukanovic, parlando nella notte dopo il voto, ha ammesso la possibilità per il suo partito Dps di perdere la maggioranza parlamentare, aprendo la strada a una coabitazione istituzionale tra presidenza e governo di diverso orientamento. Dopo la sconfitta di Djukanovic anche a Belgrado serbi e montenegrini hanno festeggiato davanti al parlamento sventolando bandiere dei due Paesi. Djukanovic aveva centrato la sua campagna elettorale su motivi nazionalistici e di identità nazionale, accusando Belgrado e la Chiesa ortodossa serba di voler ‘serbizzare’ il Montenegro.
Gli interessi in un Paese diviso – “Il regime è caduto”, ha annunciato trionfante il leader della coalizione Per il futuro del Montenegro, Zdravko Krivokapić, in rampa di lancio per sostituire Djukanovic. E ha annunciato “la mano della riconciliazione come base della nostra convivenza”, alludendo ad una grande coalizione anti-Djukanovic. Poi ha invitato i cittadini a restare a casa, non cedendo alle possibili provocazioni: “Celebrate la vittoria nelle vostre case. Ci sarà tempo per festeggiare e la vittoria potrà essere celebrata con dignità e senza scendere in piazza, senza creare tensioni. Il Montenegro è diviso in tutto e per tutto e se oggi non porgiamo una mano di riconciliazione, non la estenderemo mai. Non vogliamo vendetta ma non possono esserci irresponsabilità e impunità come prima”.
Ma come mai un piccolo paese di poco meno di 700mila abitanti è così importante per la geopolitica balcanica? Intanto perché all’indomani della scomposizione post ex Jugoslavia le tensioni e gli affari si sono mescolati in maniera spesso torbida. In secondo luogo perché la longa manus di Erdogan, prima che in Libia e nell’Egeo, era giunta anche a Podgorica, con trame commerciali e tentativi di penetrazione tramite sostegni alle infrastrutture locali.
Un debito pubblico che galoppa, vari scandali di corruzione che toccano l’inner circle del premier e i report della Commissione Europea e di istituzioni internazionali che certificano i regressi democratici del paese. Questo il Montenegro di Djukanovic, in passato condannato per contrabbando internazionale di sigarette dalle procure di Bari e Napoli ma salvato dall’immunità.
Corruzione, debito e minacce alla libertà di stampa – Il Montenegro è alla stregua di una nuova Grecia con finanze in rosso, riforme mai fatte, corruzione elevatissima e libertà di stampa in pericolo. Non sono mancati in questi 30 anni scottanti casi legati agli scandali che coinvolgono la famiglia del premier e alla libera stampa, con giornalisti minacciati e uccisi. Il più noto è Dusko Jovanovic, ammazzato nel 2004 da due killer. Da direttore del quotidiano Dan, giornale di opposizione, si è sempre distinto per inchieste giudiziarie scomode, ma le indagini si sono arenate anche perché le armi utilizzate per l’omicidio erano presenti nei depositi militari fin dai tempi della ex Jugoslavia. I funzionari locali in grado di far luce su nomi e luoghi sono scomparsi assieme ai testimoni, proprio mentre il Dipartimento di Stato americano ha classificato il Montenegro come uno stato mafioso.
Tutte le ombre del premier – Anche per questa ragione l’organizzazione internazionale non governativa Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) ha decretato due anni fa “uomo dell’anno per il crimine organizzato” il primo ministro montenegrino Milo Djukanovic.
In un paper dedicato, l’Occrp ha scoperto un’isola, finanziata dalla banca di famiglia di Djukanovic, che risultava essere di proprietà di Stanko Subotic, più volte incriminato per contrabbando di sigarette ed ex sodale del premier. Ad amministrare l’atollo c’era il capo della sicurezza di Djukanovic. Ma il nome di Subotic non è il solo scomodo ad essere stato in questi anni accostato a Djukanovic: Naser Kelmendi, Safet Kalic e Brano Micunovic sono tre personaggi di peso della malavita montenegrina, tutti secondo gli investigatori molto vicini al premier.
Tra le altre cose è emerso che la famiglia di Djukanovic ha avuto la possibilità di inglobare sotto il proprio controllo la banca statale quando questa è stata privatizzata. In quell’istituto il governo avrebbe fatto rilevanti investimenti pubblici. Ma nel momento in cui prestiti elargiti a pochi eletti non erano stati rimborsati, ecco la mano di Djukanovic mettere in salvo la banca di famiglia, grazie ad una legge ad hoc votata in Parlamento quando la maggioranza era stabilmente nelle mani del partito Dps.
Identico format adottato per la vendita di interi pezzi di costa montenegrina, per un prestito da un miliardo di dollari ottenuto per la costruzione di 41 chilometri di autostrada ma in violazione delle linee guida europee sul debito, o per l’utilizzo di fondi pubblici per fornire 300 milioni in garanzie statali per i prestiti contratti da imprese private, senza richiedere garanzie.
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