È un durissimo atto d'accusa quello contenuto nella relazione di 59 pagine consegnata dalla commissione ispettiva della Regione Veneto sulla situazione all'interno dei tre reparti del Borgo Trento di Verona, dove si sono registrati quattro decessi di neonati. Il sospetto: non sono state rispettate le norme per prevenire le infezioni
Un durissimo atto d’accusa. L’ospedale di Verona non ha informato le strutture regionali sanitarie e nemmeno quelle ministeriali delle infezioni da Citrobacter. L’epidemia è stata sottovalutata e sottostimata. C’è il sospetto che non siano state rispettate le norme di igiene per prevenire le infezioni. Nonostante i numeri imponenti, l’unità di crisi si sarebbe attivata con ritardo. Sono questi alcuni dei passaggi più inquietanti della relazione consegnata dalla commissione ispettiva della Regione Veneta e che radiografa la situazione all’interno dei tre reparti del Borgo Trento di Verona chiusi a giugno dove si sono registrati quattro decessi. La relazione è composta di 59 pagine.
La conclusione – “Queste osservazioni suggeriscono che il reparto si sia trovato di fronte ad una contaminazione a partenza ambientale che ha portato ad una diffusione del patogeno, con comparsa di infezioni invasive, con una iniziale sottostima e con il riconoscimento tardivo del problema da parte dei medici della Terapia Intensiva Neonatale con conseguente scarso coinvolgimento del Comitato Infezioni Ospedaliere almeno fino al 1° trimestre del 2020”. Inoltre, si adombra una scarso aggiornamento: “La mancanza di una coerente visione multidisciplinare clinica ed epidemiologica del problema è indirettamente testimoniata, dalla valutazione dei protocolli di terapia forniti. L’ultima versione degli stessi si riferisce al 2017… Analizzando tale documento, molto generico, si coglie al suo interno una sostanziale carenza di cultura infettivologica e di conseguenza di programmi di antimicrobial stewardship. Tale carenza è correlata verosimilmente all’assenza di una attività consulenziale strutturata e consolidata di tali specialisti all’interno della unità operativa. Ciò potrebbe avere avuto un ruolo non indifferente nella iniziale sottostima dell’evento epidemico che si andava sviluppando”.
I numeri – “Considerando il periodo, a partire dall’apertura dell’Ospedale Donna Bambino (01/04/2017 al 17/07/2020), sono stati identificati 91 soggetti positivi per Citrobacter koseri (88 positivi alla ricerca diretta dell’agente microbico, 2 casi con positività su indagini molecolari ed 1 positivo ad entrambe le indagini). Complessivamente 9 pazienti hanno sviluppato una patologia invasiva causata da Citrobacter koseri classificabile come certa o altamente probabile. Il 72,8% dei pazienti positivi per Citrobacter koseri sono pazienti ricoverati in Terapia Intensiva Pediatrica o in Terapia Intensiva Neonatale”.
Nessuna comunicazione – “Esiste l’evidenza di una mancanza di comunicazione ad Azienda zero e Regione Veneto degli eventi come stabilito dalle Direttive Regionali e Nazionali, infatti le informazioni degli eventi sono inizialmente state apprese esclusivamente da mezzi mediatici. La relazione richiesta da Azienda Zero il 2 dicembre 2019 e pervenuta alla stessa in data 11 dicembre 2019, conclude con la constatazione dell’assenza di colonizzazioni dello stesso microrganismo in altri neonati, la negatività di colture ambientali e la contestuale presenza di procedure specifiche nella Terapia intensiva neonatale finalizzate alla prevenzione delle infezioni ospedaliere”. Inoltre, “l’assenza di qualsiasi comunicazione all’Azienda Zero da parte dell’Azienda Universitaria Ospedaliera di Verona, inerente ad eventi epidemici, perdura fino alla mail del Risk Manager del 22 giugno 2020. Si sottolinea come tale comunicazione sia successiva alla costituzione della presente Commissione. Inoltre, si osserva che nessun episodio sia stato considerato meritevole di essere segnalato come evento sentinella”.
La ricerca – Eppure c’era un gruppo interdisciplinare che ha “discusso analiticamente il problema a partire dal 14 gennaio 2020. Da tale data si iniziano le azioni di contenimento, l’avvio della sorveglianza e le rilevazioni ambientali specifiche effettuate dalla Microbiologia Clinica. Il gruppo si è nuovamente incontrato il 4 febbraio 2020, a seguito della rilevazione di una nuova positivizzazione”. Quindi la consapevolezza c’era, ma insufficiente. “Si interrompe la ricerca dei colonizzati, verosimilmente in relazione alla necessità di adattare le attività di laboratorio alle urgenti problematiche diagnostiche correlate alla pandemia Covid. La stessa riprende a maggio 2020. Si rileva un aumento degli isolamenti di Citrobacter koseri nella terapia intensiva neonatale”.
La scoperta – La ripresa delle analisi, in primavera, “dimostra come persista una elevata circolazione del batterio tra i neonati ricoverati in Terapia Intensiva Neonatale (nei primi 5 mesi del 2020 sono stati interessati il 33,6% dei neonati e, in alcuni momenti, come riportato dai verbali, il coinvolgimento ha riguardato il 75% dei soggetti ricoverati)”. La percentuale è impressionante. “A partire da maggio 2020, nei reparti interessati dalla circolazione del Citrobacter koseri, vengono inoltre attuate una serie di misure preventive e organizzative che non portano tuttavia alla risoluzione del problema. E così dal 22 maggio non si accettano più gravidanze a rischio. Scrive la commissione: “Non è noto quali informazioni e quale modalità di comunicazione siano state effettuate verso i familiari dei neonati coinvolti. L’attenzione ad una corretta comunicazione con i familiari e l’informazione precoce della presenza di un evento epidemico, reiterando le necessarie misure educazionali preventive, sono raccomandate anche in letteratura”.
La prevenzione – “I neonati di basso peso alla nascita sono ad elevato rischio di infezioni correlate alle pratiche assistenziali e la contaminazione dell’ambiente, dell’unità paziente e in ultima analisi delle mani del personale in assistenza, rappresenta probabilmente il fattore ‘estrinseco’ più importante. Su questi aspetti, dalla documentazione fornita si evince che nella Terapia Intensiva Neonatale il volume di prodotti ad uso di soluzione alcolica per l’igiene delle mani è stato al di sotto degli standard minimi Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2018 e poco al di sopra di questo livello nel 2019. Analoghe considerazioni possono essere fatte per la Terapia Intensiva Pediatrica. Questi valori non possono comunque essere considerati sufficienti data la tipologia di pazienti gestiti”.
I rubinetti – Finalmente lo trovano. “Le analisi ambientali nell’ultima settimana di giugno 2020 hanno rilevato la presenza di Citrobacter koserisui nei rompigetto di alcuni rubinetti all’interno della Terapia Intensiva Neonatale e Terapia Intensiva Pediatrica e sulle superfici interne ed esterne dei biberon, utilizzati da due neonati risultati precedentemente positivi per Citrobacter koseri. Inoltre, le indagini di caratterizzazione molecolare hanno evidenziato una correlazione tra gli isolati dai pazienti coinvolti e quelli ambientali su rompigetto e biberon, definendone l’appartenenza ad un unico cluster”. Inoltre, “in due campioni risultati positivi, il prelievo sulla parte esterna del biberon dovrebbe essere stato effettuato prima del contatto con il bambino (che presentava già positività per Citrobacter koseri). Si ipotizza pertanto una contaminazione secondaria dei biberon, verosimilmente correlata a procedure non corrette di gestione degli stessi”. Non sono i bambini ad avere infettato i biberon.
Mancano i filtri – L’analisi prosegue con l’igienizzazione: “Per l’igiene delle mani, non è noto se siano state formalizzate specifiche indicazioni per l’uso esclusivo di soluzione alcolica, sia per operatori sanitari che per i familiari”. Inoltre: “Per le cure igieniche del bambino, nella specifica istruzione operativa è previsto l’impiego di acqua prelevata dal rubinetto dotato di filtro antibatterico, ma dall’analisi dei verbali risulta che i filtri antibatterici terminali siano stati posizionati solo a luglio 2020”. Non si sa poi se fossero effettuati “flussaggi periodici ai punti terminali di erogazione dell’acqua, come previsto da specifica procedura aziendale per la prevenzione della Legionellosi: tali operazioni di flussaggio rappresentano uno strumento necessario anche per garantire la diffusione ottimale dei disinfettanti fino ai punti terminali dell’impianto”.
L’ambiente – La relazione non è in grado di dire se vi sia stata contaminazione ambientale. Però, “è possibile che la contaminazione ambientale si sia diffusa in modo incontrollato e, nonostante le azioni intraprese, abbia determinato l’importante incremento delle colonizzazioni dei pazienti. La contaminazione ambientale associata ad una apparente insufficiente adesione alle procedure di igiene delle mani, al possibile utilizzo anche dell’acqua di rete, sia da operatori che da familiari, quale alternativa alla soluzione alcolica per l’igiene delle mani e all’impiego dell’ acqua da impianto idrico anche per altre procedure che riguardano la gestione dei neonati, sono probabilmente le concause che hanno portato alla diffusione, tramite contatto diretto e indiretto, del patogeno, alla colonizzazione dei pazienti e allo sviluppo di infezione invasiva”.