di Jon Duro
La pandemia Covid-19 ha colto di sorpresa un po’ tutti e ha avuto un’onda d’urto devastante che ha indiscriminatamente colpito ogni nazione, senza fare distinzione di razza, sesso, estrazione sociale. Ha messo in forte crisi le economie dei paesi senza risparmiare nemmeno quelle più stabili, stressando oltre misura i loro sistemi sanitari. Nessun governo ha inizialmente riconosciuto la pandemia e questo ha portato a raggiungere livelli di diffusione del virus da dover imporre un lockdown sulla popolazione e sulle imprese.
Tra i paesi maggiormente colpiti spicca la Corea del Sud: data la vicinanza e i continui rapporti economici e turistici con la Cina, il virus ha trovato pochi ostacoli e, quasi immediatamente, la Corea è stata preda del virus Sars-CoV-2. Il governo coreano, però, non si è fatto prendere dal panico e ha dato sin dall’inizio l’impressione di sapere cosa fare e come comportarsi. Prima di decantare le eroiche gesta dei coreani per poi sminuire le nostre, vanno fatte alcune premesse:
1. Culturalmente i coreani sono più inclini al rispetto delle regole imposte dal datore di lavoro e dal governo, che peraltro hanno una forte presenza nella vita privata del cittadino – eredità della ultracentenaria tradizione confuciana.
2. Le autorità hanno a disposizione sistemi di sorveglianza ai limiti del paranoico: ogni strada, autostrada, edificio, ufficio, pullman, ascensore, negozio, autoveicolo è munito di camere di videosorveglianza – praticamente è impossibile passare inosservati.
3. Le prassi di gestione delle pandemie non arrivano gratis, la Corea ha già dovuto gestire casi precedenti: il Mers del 2015, molto meno devastante dell’attuale Covid-19, ha costretto molte aziende a rimanere chiuse per diverse settimane.
In un simile contesto la Corea ha imposto un modello operativo che altri paesi, non partendo dalle stesse premesse, hanno fallito nel tentativo di emulare. La strategia coreana, detta “test-trace-contain”, ha avuto un’immediata applicabilità grazie alla propensione tecnologica delle autorità e all’uniformità dei dati messi a disposizione di una speciale squadra investigativa con il compito di ricostruire gli spostamenti degli infetti.
Inizialmente il processo investigativo richiedeva un periodo di 24 ore, basato principalmente su interrogazioni ai soggetti, familiari, consultazione dello storico dei pagamenti effettuati con carta, dei dati gps e delle registrazioni di videosorveglianza. Il 26 marzo entra in uso un software che automatizza il processo accedendo in real time ai dati citati e fornendo risultati in soli 10 minuti.
Si riesce, così, a risalire anche a tutti coloro entrati in contatto con i soggetti infetti e, iterando ricorsivamente, si sono individuati gruppi di popolazione a rischio.
Ad ogni persona identificata era imposta una quarantena di due settimane e il loro caso veniva trasferito ad un secondo team per accertare lo stato fisico e il rispetto della quarantena. Ogni giorno, due volte al giorno, i soggetti dovevano trasmettere, tramite app, la temperatura, possibili tosse, irritazione alla gola e difficoltà respiratorie. Nel caso in cui la quarantena fosse stata violata, un segnale avvisava il team che contattava il soggetto. In caso di infrazione ripetuta, il caso passava alle autorità.
Dopo due settimane di quarantena i soggetti erano liberi di eliminare l’applicazione e tutti i dati riguardanti i loro movimenti venivano eliminati dal sistema.
C’è da ammettere che una tale efficienza nella gestione della pandemia non è raggiungibile in pochi mesi e ce ne siamo accorti un po’ tutti. Gli stati europei devono, quindi, iniziare già oggi a mettere in piedi le infrastrutture di emergenza necessarie che possano gestire future epidemie e non trovarsi impreparati per una seconda volta.