Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2020, Quo vadis, Aida? Il genocidio di Srebrenica tra Schindler’s List e La scelta di Sophie

Un film storico dalla carica politica devastante, sguardo al femminile sul mondo delle decisioni dei maschi, macchina da presa che inquadra scene di massa, centinaia e migliaia di attori, donne, uomini e mezzi corazzati, in profondità di campo

di Davide Turrini

Quando il genocidio di Srebrenica fu reso possibile dai caschi blu olandesi dell’Onu. Inutile girarci troppo attorno. Jasmila Zbanic con Quo vadis, Aida?, primo film in Concorso a Venezia 77, ti sbatte sul muso le responsabilità etiche e morali di quel manipolo sgangherato e vile di militari delle Nazioni Unite che diede in pasto volontariamente migliaia di civili al sanguinario esercito serbo con a capo il generale Radko Mladic. Un film storico dalla carica politica devastante, sguardo al femminile sul mondo delle decisioni dei maschi, macchina da presa che inquadra scene di massa, centinaia e migliaia di attori, donne, uomini e mezzi corazzati, in profondità di campo come se fosse Il giorno più lungo. Zbanic accentua la piega al femminile scegliendo di porre al centro del racconto l’interprete Aida (Jasna Duricic), eroina resiliente di un tragico ma fugace segmento della lunga guerra in Jugoslavia, quarantenne insegnante dell’enclave di Srebrenica, che tra il 9 e l’11 luglio 1995, compì il suo lavoro di traduttrice per i militari del contingente olandese Onu barricati in un compound poco fuori la città bosniaca.

Le truppe corazzate dell’esercito serbo di Mladic, accompagnate da diverse bande armate di criminali figuri, conquistarono in quelle ore, bombardando e ammazzando qua e la, quella che le Nazioni Unite avevano proclamato come “zona protetta”, assieme a Sarajevo e Tuzla. Quo Vadis, Aida? inizia con una sequenza al ralenti. I familiari di Aida, marito e due figli grandi, tutti bosniaci musulmani, che nel salottino di casa si guardano in silenzio come sorpresi dalla tragedia che sta per verificarsi (“Solo perché riteniamo alcune cose inimmaginabili, non significa che non possano accadere”). Il meeting tra i militari Onu e le autorità di Srebrenica, durante il quale Aida aveva svolto la sua mansione, era finito con quella che si rivelerà una falsa promessa di protezione. È invece Mladic (Boris Isakovic) conquista presto la città. Le esecuzioni sommarie si sprecano, ma il generale serbo, che si fa seguire da un operatore della sua tv (le immagini vere di questo abominio di propaganda sono su Youtube ndr) ci tiene a mostrare che la “pulizia etnica” che sta avvenendo non risulti un macabro sterminio di innocenti. La popolazione della città occupata scappa alla rinfusa e raggiunge la località di Potocari dove si trova il fortino Onu. Le prime 300 persone riescono ad entrare al sicuro oltre il filo spinato. Le altre, che sono migliaia, rimangono fuori. Davanti al cancello con i caschi blu che li osservano e li intimano a non forzare i blocchi.

“Aida che succederà?”. “Aida cosa faremo?”. “Aida facci entrare!”. Urlano verso la donna, comunque composti, molti suoi concittadini, sia quelli già dentro al compound sia quelli costretti con inaudito cinismo a rimanere fuori. La donna è comunque in apprensione per le sorti dei suoi familiari che poi ritroverà e farà penetrare nottetempo tra i militari. L’attesa che i caschi blu facciano però entrare i bosniaci rimasti lì davanti alla possibile mercé dei serbi è al cardiopalma. Solo che, come la storia ci insegna, sarà Mladic a chiedere una trattativa “pubblica” presso l’hotel Fontana (anche questi incontri sono caricati come video su Youtube ndr) per “portare in salvo i civili”. E a quella trattativa il colonnello olandese Karremans parteciperà come un burattino nelle mani del suo puparo. Già, perché se c’è un intento preciso della Zbanic, autrice anche dello script, è quello di mostrare la vigliaccheria degli alti comandi Onu in loco. “Non hanno avuto pietà, empatia, non sono stati solidali, i militari olandesi hanno come avuto un pregiudizio verso i musulmani di Bosnia”, ha spiegato la regista in conferenza stampa a Venezia. Così se per metà film regna l’attesa vibrante e tesa sulla sorte dei profughi, ecco che stipulato l’accordo tra Mladic e Karremans, arrivano i pullman serbi che letteralmente deporteranno oltre ottomila uomini, donne e bambini, compresi i 300 all’interno del compound. Questi ultimi verranno fatti uscire con sadica puntualità dai caschi blu e finiranno trucidati, come gli altri, poco lontano. Tra Schindler’s List e La scelta di Sophie, Quo vadis, Aida? si carica addosso il peso della verità storica, e pur sintetizzando qualche singolo episodio di quelle ore concitate, mostra come il re fosse drammaticamente nudo.

La banda di serbi che penetra armata con l’assenso delle autorità militari olandesi nel fortino pieno di profughi per “controllare” se ci sono uomini armati; la tensione continua tra gli aguzzini “buoni” che portano il pane ai profughi mentre i militari Onu li lasciano alla fame; il modo con cui i soldati serbi dileggiano soprattutto i caschi blu (di uno si burlano sfilandogli dalla testa il simbolico casco), evidenziano l’impellente ragione di fondo di un film che, spettacolare e magniloquente come il cinema di genere, ma anche squarcio privato e personale di donna, vuole vibrare nel 2020 come un limpido j’accuse morale verso le colpevoli istituzioni militari occidentali. “Questo non è un film contro l’Onu. Riguarda invece la necessità che questa organizzazione internazionale migliori, perché ne abbiamo bisogno. Dovessimo inventare e creare oggi le Nazioni Uniti non ci sarebbe la volontà politica per farlo”, afferma senza mezzi termini la regista che ricorda di aver vissuto personalmente durante la guerra dei Balcani l’assedio di Sarajevo. “Nel preparare Quo vadis, Aida? ho voluto allontanarmi da un approccio documentario, avvicinandomi però verso tutti coloro che hanno vissuto quella storia e dai pochissimi che sono sopravvissuti. Ho parlato anche con i testimoni militari olandesi dell’epoca. Molti non mi hanno voluto parlare, ma altri hanno confessato di aver pianto in quelle ore e successivamente di aver vissuto stress post traumatico come senso di colpa del non aver agito per difendere quei poveri profughi”.

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