È una questione di soldi, diciamolo. Di indennità e privilegi opulenti, di uno stereotipo grassoccio del politico che dietro al vetro della tv chiacchiera molto e fatica poco. Come ormai è abitudine in Italia, ogni votazione è roba di pancia; in questo caso di chi ce l’ha piena e di chi invece la sente brontolare.
Però. Però un voto richiede anatomia diversa, il referendum del 20 e 21 sul taglio dei parlamentari merita testa. Così ho scartabellato il web per palpare l’indignazione e inchiodare uno per uno i privilegi che dovrebbero spingermi a votare “Sì”. E magari, dopo aver messo la croce, rompere la sacralità del seggio per sussurrare “e che cazzo!”.
La rete, come sempre, è impiastricciata di fake news che da vent’anni si ripetono come rosari più che come catene di Sant’Antonio. Ma su fonti affidabili come Il Sole 24 ore, The Italian Times e il più aggiornato TrueNumbers le informazioni tornano e si confermano. Partiamo dallo stipendio, ovviamente. L’indennità parlamentare netta sarebbe di 5.246,54 euro per i deputati e 5.304,89 euro per i senatori, con qualche piccola variazione in base alle addizionali regionali e comunali delle ritenute di ciascuno.
Ma non è questa la cifra che un parlamentare si mette in tasca, chiaro che no: bisogna infatti aggiungere la diaria, ovvero il rimborso delle spese di soggiorno a Roma, da 3.503,11 euro al mese. Su questa voce possono entrare in gioco decurtazioni ma anche privilegi: 206 euro in meno per ogni giorno d’assenza, ma per essere presenti basta partecipare al 30% delle votazioni di una giornata. Un po’ come se un qualunque dipendente facesse un terzo del lavoro ma venisse pagato per intero.
Proseguiamo con le aggiunte: oltre alla diaria, per i deputati ci sono 3.690 euro mensili di “rimborso delle spese per l’esercizio del mandato”, cioè per collaboratori (in genere parenti) e gestione dell’ufficio. Ai senatori spetterebbe una cifra leggermente più alta. Per entrambi una quota del rimborso è sottoposta a rendicontazione, il resto a forfait.
Non abbiamo ancora finito: per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e dall’aeroporto di Roma-Fiumicino a Montecitorio, è previsto un rimborso mensile minimo (variabile in base alla distanza casa-aeroporto) di 1.107 euro per i deputati, a cui si aggiungono 100€ al mese per spese telefoniche. I senatori invece hanno diritto a un rimborso unico per spese di viaggio e telefono da 1.650 euro. Facendo una media, il guadagno mensile di un deputato arriverebbe a 12.439 euro netti, per un senatore a 12.544 euro netti.
Ma ancora una volta non abbiamo finito. Perché ai soldi bisogna sommare i privilegi: assistenza sanitaria e liquidazione di fine mandato (finanziati attraverso un versamento mensile dallo stipendio lordo dello stesso parlamentare, senza toccare il netto), vitalizi (per gli aventi diritto), immunità parlamentare (sempre comoda) e i trasporti gratuiti su autostrada, treni, aerei e navi; che a confronto i pendolari di tutto il Paese abbonati a Trenitalia per andare in fabbrica sono dei gran fessi.
Il punto è proprio qui: la sfacciata diversità tra i parlamentari e tutti gli altri. Tagliare il loro numero è tagliare la spesa che l’Italia sostiene per mantenere l’ineguaglianza. O forse no. Anzi no, come il mio voto. Perché ridurre i parlamentari vuol dire sì diminuire le spese ma non i privilegi.
A fronte di una riduzione oggettiva della democrazia, rimarrà e si accentuerà il solco insopportabile tra un’élite ancora più ristretta e quell’Italia in cui i pendolari mettono mano al portafogli a ogni casello, in cui buona parte dei dipendenti non ha un telefono aziendale, in cui assumere un collaboratore è una spesa a tuo carico e non della collettività, in cui i sindaci risolvono e assorbono i problemi concreti della gente prendendosi responsabilità ciclopiche poggiate su stipendi normalissimi.
A me questo referendum pare fumo negli occhi: perché anziché proporre di tagliare i parlamentari non si segano semplicemente i privilegi? Allora sì che voterei “Sì”. E ci sarebbe un altro referendum a cui voterei, fortissimamente, “Sì”: quello per ripristinare il voto di preferenza e il sacrosanto diritto degli italiani a scegliere il proprio rappresentante in Parlamento, senza liste e listini bloccati.
È una questione di soldi, scrivevo all’inizio, e mi sbagliavo. Perché poco mi importerebbe dei guadagni di un parlamentare se l’ho apprezzato e scelto, se l’alto stipendio di uno serve a tutelare l’interesse dei molti di cui si fa portavoce. Invece sbadigliamo davanti a un Parlamento boccheggiante di ignoti yes-man, che votano manovrati dai partiti.
Ridurre il numero dei parlamentari, come tra qualche giorno si chiederà di fare agli italiani, significa ridurre lo sforzo di segretari e capi politici per gestirli, riempiendo l’aula di una ancor più una selezionata cerchia di fedelissimi.