di Mattia Zàccaro Garau

L’ambiente è letteralmente quello che ci sta intorno. Lo rivela la parola stessa: ambiente è formato da “amb-” (intorno) e da “ire” (andare), e rappresenta così “ciò che va”, “che si muove”. Ciò che vive attorno a noi. È singolare sia proprio tutto questo coacervo di vite che formano il nostro habitat, e rendono possibile il nostro abitare, ad essere così distante dalla nostra cura. È un controsenso cercare il benessere ma non occuparci della sanità dei luoghi in cui viviamo.

In Italia questa dissonanza è ancora più marcata. E lo è malgrado la proliferazione di molti movimenti ambientalisti, comunque quasi sempre non autoctoni, copie di movimenti nati altrove, in contesti differenti; malgrado la presenza di un partito dichiaratamente verde, che purtroppo non entra in Parlamento da oltre un decennio; malgrado i molti cani sciolti che si assumono responsabilità civiche quotidiane.

Eppure più del 99% degli scienziati che hanno pubblicato studi sul cambiamento climatico nel 2019 hanno concluso che il riscaldamento globale si può definire antropogenico, causato dalle attività dell’uomo. Una percentuale che rasenta la totalità degli sforzi accademici sullo stato dell’ambiente può lecitamente trasformare quella che è solo un’evidenza scientifica in una verità esistenziale (se non addirittura assoluta). Eppure non ci basta ancora: ci accorgiamo che qualcosa non va, ce ne lamentiamo, ma non passiamo all’azione, non ci ribelliamo.

Per affrontare seriamente il problema ambientale bisognerà allora tentare di uscire da quella che D.H. Lawrence chiamava la “ben educata anarchia emotiva” – spesso figlia di una protesta incapace di trasformarsi in ribellione. Anzi, soddisfatta di permanere allo stadio di lamentela. Questa incapacità di evoluzione-in-rivoluzione viene dal fatto che le conseguenze del dramma ambientale ancora non tracimano dappertutto e non trascinano con sé il sistema capitalistico.

Pur appurata la gigantesca portata del problema, il pavimento dell’economia di mercato non è ancora crollato. Figuriamoci allora i concetti fondamentali del materialismo! – che è venuto ben prima del capitalismo moderno. Anzi, come l’anziana baiadera, il nostro consumismo possiede un suo trucco retro che ci affascina, ci attrae, seduce. E, in fin dei conti, ci impedisce di incarnare le proposte verdi che necessitano, innanzitutto, un cambio di regime economico.

Così questo ostacolo di comodo, il continuo prevalere del libero mercato come nostro abito mentale, diventa superabile solo se ci accorgiamo che in ballo c’è un cambiamento personale prima ancora che sociale. L’abito, sia quello del corpo sia quello della mente, per quanto rassicurante e bello, vantaggioso e alla moda – è indossato da una persona, da un individuo singolo che lo sceglie, in ultima analisi e se tutto va bene, con coscienza.

È allora la coscienza il luogo giusto della lotta per l’ambiente. E dato che è sempre dalla verità che deriva la dignità della nostra coscienza, il richiamo a chi non si vuole accorgere della necessità di questa lotta deve essere primariamente legato alla sua verità, che deve combaciare con l’evidenza della scienza, di cui sopra.

Bisogna avere il coraggio di dirci: stai mentendo, sei un bugiardo, hai la coscienza sporca, ce l’hai indifferenziata. Si tratta di inchiodarci alla croce dell’ambiente, perché questa lotta, che non deve essere armata, deve essere prima di tutto una lotta-amata.

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