Gli Atenei ripartiranno per il nuovo anno accademico con aule a numero chiuso, mascherine obbligatorie e prenotazione fino a esaurimento posti per partecipare alle lezioni. Chi rimarrà escluso seguirà da casa.

Allo scopo di evitare assembramenti saranno inoltre vietate le soste davanti e fuori dalle aule, verranno usati spazi di entrata e uscita separati nelle aule (con l’esclusione all’uso degli spazi non dotati di accessi distinti) e ogni aula dovrà, poi, disporre di gel disinfettante. Le disposizioni relative alla possibilità di accesso per studenti e docenti con febbre o sintomi influenzali sono demandate come sempre all’autocertificazione e all’autodiagnosi.

L’Università è l’ultima istituzione a riaprire dopo che sono state spalancate le porte di negozi (i primi di abbigliamento per bambini già a inizio maggio, ancora in piena pandemia), chiese, bar, stabilimenti balneari, barche, treni e autocorriere. Ancora oggi e fino a metà settembre in molti edifici universitari, le porte rimangono chiuse e addirittura il personale accademico entra previa autorizzazione dei direttori solo in presenza di inderogabili e non meglio qualificate esigenze di ricerca o di partecipazione a attività laboratoriali.

Le motivazioni della prolungatissima chiusura e delle misure di prevenzione richieste dal ministero per la riapertura sono sicuramente mosse da prudenza per evitare assembramenti e aumenti di possibilità di contagio. Certo che a pensare a una giornata tipo di uno studente che dovrà recarsi nelle facoltà semi blindate qualche domanda ce la si deve anche porre rispetto alla razionalità di tali norme.

Per raggiungere un’aula di solito chi vive fuori sede oppure in quartieri lontano dagli edifici universitari deve alzarsi e prendere un mezzo pubblico che può essere stipato per legge fino all’80% della capienza. Nelle ore di punta ovviamente nessun controllore o autista avrà niente da eccepire se il numero dei passeggeri sarà un po’ superiore. Sceso dal mezzo pubblico, il nostro studente si ferma spesso a prendere un caffè in un bar mediamente sovraffollato di prima mattina da impiegati e colleghi di studi.

Terminata la colazione, si avvierà verso l’aula universitaria indossando la mascherina prima di entrare nell’edificio e tenendola per tutte le ore che trascorrerà al suo interno. Una volta terminate le lezioni, spossato dal prolungato uso del dispositivo, lo studente si toglierà la mascherina e uscirà per andare in un altro locale sovraffollato per un aperitivo in compagnia, rientrando in contatto con decine di altre persone che di nuovo si avvicineranno, si sfioreranno e si toccheranno senza troppe remore e senza che nessuno dica loro di non farlo.

Più tardi chi vive fuori città prenderà di nuovo l’autobus o il treno per fare ritorno a casa in mezzo a file di pendolari e vagoni strapieni. Chi invece ha la fortuna di abitare in sede si aprono nuove e interessanti opportunità di socializzazione.

Nei primi mesi di lezione, i ritmi di studio sono in particolare più blandi. Così gli studenti avranno voglia e anche piacere di partecipare a qualche cena o di frequentare qualche attività ricreativa e di nuovo decine di migliaia di persone saranno in stretto contatto senza distanziamenti, senza mascherine e senza gel disinfettanti o sanificazioni degli ambienti particolari.

Ovviamente ci sono anche studenti modello che passano direttamente dalla propria stanza all’aula senza fermarsi al bar e che una volta finite le lezioni ritornano in fretta nella propria abitazione per riprendere a studiare. Ma gli studenti modello sono sempre più rari e l’estate ha insegnato che il rispetto delle norme e delle prescrizioni è diventato ormai un optional per la grande parte degli italiani.

Ci si deve chiedere allora che senso ha limitare in modo così massiccio l’accesso alle aule di lezione, alle aule di studio e alle biblioteche universitarie se nella vita quotidiana le persone sono sottoposte per i tre quarti della giornata a una continua potenziale esposizione e trasmissione del virus. La risposta non è chiara. Forse non si può fare altrimenti e il controllo è esercitato solo nei luoghi dove questo è possibile. Ma ancora: se si fa prevenzione del contagio in certi luoghi e in tutti gli altri no, quali sono gli effetti attesi? Che si riduca la circolazione del virus? Che si ammalino meno persone?

Purtroppo l’Università è stato lo spazio pubblico che più ha sofferto in questi mesi dell’epidemia del Covid-19, ma a quasi nessuno è importato niente. Certo si può dire che l’Università non è uno stabilimento balneare che deve garantire reddito e occupazione. Il che è forse vero, ma chi tra uno stabilimento balneare e un’università è più importante per la qualificazione e la competitività di un sistema nazione?

La sensazione purtroppo è che la riapertura blindata dell’Università, come del resto quella delle scuole, rischi di diventare semplicemente un modo di mostrare simbolicamente ai cittadini che le istituzioni tengono ancora alta l’attenzione sulla diffusione del virus e sono massimamente responsabili della salute della popolazione. Non è detto però le cose stiano realmente così.

Rendere difficile la didattica in aula significa sfavorire chi ha meno mezzi per connettersi, chi è più lontano dalle sedi, chi ha meno soldi per rischiare di affittare una stanza per paura del rischio di una chiusura. Vale la pena aumentare le diseguaglianze e rendere difficile l’istruzione terziaria in nome di una prevenzione della salute che può essere solo nominale e che fuori dalle aule non può e non vuole essere più garantita?

Fa specie che sia proprio il luogo della costruzione del sapere e della maturazione di una coscienza civile e sociale a diventare il capro espiatorio di colpe che altri dovrebbero eventualmente pagare. Ma è probabile che l’Università sia, come del resto è accaduto negli ultimi venti anni in Italia, l’ultimo dei pensieri dei politici al governo (e all’opposizione).

In effetti, gridare allo scandalo per i bonus dei 600 euro presi da uno sparuto numero di parlamentari, oppure invocare come una panacea la riduzione del numero degli eletti senza spendere una parola sulla loro qualificazione e sull’entità dei loro stipendi sono strategie che nella nazione meno istruita d’Europa rendono sicuramente di più.

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