Storia affascinante e durissima di una donna che perde un bambino dopo un parto casalingo. Il suo muto dolore, il suo ritrovarsi, tra atteggiamenti riflessivi ed animaleschi, a Boston, in sei mesi tra l’inverno e la primavera dell’anno successivo. L’ungherese Kornel Mundruczo fa centro e si candida al Leone d’Oro
Se ti chiama Martin Scorsese e ti fa i complimenti perché vuole co-produrre il tuo film, è altamente probabile che hai girato qualcosa di gran livello. Pieces of a woman, pezzo da novanta in Concorso a Venezia 77, diretto dall’ungherese Kornel Mundruczo, è uno di quei drammi incentrati su una figura femminile che poteva girare un Cassavetes. Intanto, per entrare nell’improvviso lutto della perdita di un bimbo appena nato, e la sua relativa dolorosa elaborazione, che accade a Martha (Vanessa Kirby), bisogna affidarsi alla regia totalizzante di Mundruczo, qui alla prova con attori indie hollywoodiani dopo gli ottimi ungheresissimi Johanna, Delta e soprattutto White Dog, titoli d’eccellenza di molte line-up ufficiali di Cannes. Elemento cruciale a cui non puoi prescindere, proprio come si faceva per i grandi autori popolari anni settanta. Citare Scorsese è scontato, ma la robusta parte che nel film ha Ellen Burstyn – la mamma di Martha – che con Scorsese interpretò l’intramontabile Alice non abita più qui (ma anche L’esorcista), aiuta parecchio. Sei gli atti temporali consequenziali con cui Mundruczo e la solida co-sceneggiatrice Kata Weber (con lui ha sceneggiato gli ultimi tre film) strutturano il racconto di Pieces of a woman.
Da un’ottobre all’aprile successivo, seguiamo alcuni frammenti di giornate nella plumbea Boston di oggi (a quanto pare ricreato tra Canada e Norvegia). Il sottotesto metaforico sul costruire e dar vita materialmente ad un filo che lega due parti opposte appare subito in apertura con la prima sequenza in cui Sean (Shia LaBeouf), il compagno di Martha, operaio specializzato nel costruire ponti si allontana dal posto di lavoro e la raggiunge per l’acquisto dell’auto nuova (acquisto dovuto alla ricca madre di lei). Circa quattro inquadrature, per qualche minuto di film, che fanno da preludio ad un piano sequenza apparentemente lungo circa 25 minuti (noi uno stacco di montaggio l’avremmo intravisto, ma va benissimo lo stesso). Ci troviamo nell’appartamento abbastanza ampio e visibilmente elegante della coppia protagonista. Il dialogo tra Sean e Martha comincia in cucina quando a lei si rompono le acque. A quel punto senza mai staccare con la macchina da presa, che si sposta su una fredda, avvolgente, invisibile traiettoria, assistiamo all’arrivo di un’ostetrica che farà partorire la donna in casa. Poi, sempre senza stacco alcuno, ci si sposta tra il salotto, il bagno, la camera da letto e di nuovo in esterno sulla strada per assistere al parto di Martha. Solo che la neonata pochi secondi dopo aver visto la luce è cianotica. Con qualche tentennamento l’ostetrica chiamerà l’ambulanza, ma per la neonata non ci sarà nulla da fare.
Trenta minuti di film. Titolo del film che appare su fondo nero. Ecco allora il succedersi delle tracce voluttuose, tragiche, dolenti, ma anche sbarazzine (le note di Duke Ellington e Bill Evans stemperano assai) dei mesi che seguono. Atteggiamenti taglienti, rudi, talvolta animaleschi, ma pur sempre compressi nell’algido contesto socioculturale di una quasi upper class della costa est. Martha fatica a ritrovare senso agli accadimenti, torna al lavoro, gela ogni sentimento per il compagno, si fa abbordare ma senza concedersi, prova a far crescere dei semi vegetali in vitro dentro al frigo, e soprattutto vuole concedere il corpicino della figlia alla scienza medica che rispetto al decesso non sa che pesci pigliare. Sean, un LeBeouf tamarro, con braghette corte, ciabatte e il membro che si intravede mentre spesso cala le mutande, risponde al lutto con la veemenza dell’uomo rozzo, alla ricerca di una causa penale con indennizzo per il figlio morto, chiaramente non all’ “altezza” della classe socio-economico in cui era finito stando con Martha e la sua famiglia. Attorno a loro un microcosmo familiare, tra la dura madre di Martha che vuole decidere ogni cosa per la figlia, sua sorella, il cognato venditore d’auto (il regista Bennie Safdie) e la cugina avvocatessa con cui Sean tradirà la moglie. Dicevamo della regia di Mundruczo. Un prisma di senso dentro al quale si mescolano movimenti di macchina, angolazione dell’inquadratura, sviluppo del testo e cesura del tempo. Martha è il personaggio più seguito in scena, inquadrata spesso di profilo o di tre quarti, in una sorta di istante in leggero movimento, tra il riflessivo e l’istintivo.
La donna vive i mesi post lutto con una silente, disinvolta e rinnovata consapevolezza, osservando i ponti cadere attorno a sé, e piazzando definitivamente dritta la barra dell’imponderabile, rotolata fino all’interno di un’aula di tribunale dove l’ostetrica è finita accusata di omicidio del neonato. In mezzo alla neve, al grigiore climatico e alla contrizione delle facce dei protagonisti, che la storia di Pieces of a woman ruota attorno al territorio dell’invisibile, alla domanda sul perché qualcosa di impossibile all’improvviso accade. Senza però che il racconto aiuti alla decifrazione. Perché basta il cinema, basta l’avventura visiva a saziarti con questo film affascinante ma durissimo. Per il piano sequenza e la maggior parte delle inquadrature in continuo ma mai frenetico movimento, Mundruczo usa il supporto di assi gimbal alla macchina a mano per rendere il movimento più fluido e sinuoso senza che nulla vada mai fuori fuoco. La Kirby (principessa Margaret in The Crown, al cinema già in Mission Impossibile Fallout) è semplicemente divina e sontuosa in una parte complicata, dove la performance non è solo di recitazione orale ma richiede una fisicità imponente e credibile. Insomma, siamo di fronte ad un serio concorrente per il Leone d’Oro 2020.