In finale olimpica Nino Benvenuti affronta il russo Yuri Radonyak. A Roma 1960 ha già sconfitto il francese Jean Josselin, il sudcoreano Kim Ki-Soo, il bulgaro Shishman Mitsev e in semifinale l’inglese Jimmy Lloyd. Il PalaEur aspetta solo il suo oro. La boxe italiana in quei giorni romani è in uno stato di grazia. Nel complesso porterà a casa tre ori, tre argenti e un bronzo. Il 5 settembre 1960 Benvenuti vince il titolo dei welter. Dopo avere mandato al tappeto il rivale, si aggiudica l’incontro con il punteggio di 4-1. Verrà premiato anche con la coppa di miglior pugile di tutte le categorie. Realizza il suo sogno di ragazzino e si appresta a iniziare una straordinaria carriera da professionista.
Benvenuti, sono passati esattamente 60 anni da quel giorno.
Il mio cuore sportivo è a forma di medaglia d’oro olimpica. Negli anni sono arrivati tanti titoli, ma anche un campione del mondo ad un certo punto diventa ex. Invece campioni olimpici lo si è per sempre.
Il pugilato italiano allora ottenne ben tre ori. Vi sentirete in queste ore con Francesco Musso e Franco De Piccoli per ricordare quei momenti?
Spero di sì perché anche gli amici di medaglia lo sono per sempre.
A Roma allora si respirava un’energia particolare…
Roma… è Roma. Immaginatevela con l’Olimpiade: magnifica. Davvero, caput mundi. Doppiarla però non la replicherebbe. Sarebbe fantastico, certo. Ma quella del ’60 resterebbe unica. Anche perché è Roma a non essere più la stessa.
Quella è stata l’Olimpiade anche di Cassius Clay. Che ricordo ha del più grande di tutti i tempi?
L’ha detto: il più grande. In assoluto. Perché non lo fu soltanto sul ring. Ho rubato sempre ovunque potessi, ma lui l’ho praticamente saccheggiato, nel senso che il suo stile era magnifico. Pur essendo un peso massimo, quando si muoveva tra le corde non ce n’era per nessuno. Ali è stato la massima espressione di uno sport che considero il migliore al mondo”.
Quale è l’incontro della sua lunga carriera che le capita di ricordare più spesso?
Senza dubbio il primo match con Griffith, in quello che era considerato il tempio mondiale della boxe, il Madison Square Garden di New York. Un ricordo indelebile non solo per la vittoria sul ring, ma anche per l’affettuosa amicizia che mi legò a Emilio per tutta la vita, fino alla sua scomparsa.
Oggi cosa fa di bello? Segue ancora con interesse la boxe?
Conduco una vita tranquilla: mia moglie Nadì, il mio cane e il mio gatto, la vicinanza di mia figlia Nathalie, l’affetto delle persone care, compreso quello della mia storica collaboratrice Anita Madaluni. La boxe, dopo tanti anni di onorata carriera come pugile e come cronista televisivo, continuo a seguirla soprattutto nelle grandi occasioni.
Ha 82 anni. Il suo è un bilancio positivo?
Ottantadue compiuti da poco. Anche se, sono sincero, non me li sento. Sono stato un uomo fortunato. Ho avuto tutto. E ho raggiunto traguardi che mai avrei immaginato. Mi sono sempre nutrito della insaziabile passione per questo sport meraviglioso. Oggi credo di potermi meritare di essere sereno.
Qualche giorno fa se ne è andato Sandro Mazzinghi, uno dei suoi rivali sul ring.
Un grande guerriero. Un pugilatore fortissimo che mi diede sempre filo da torcere. Lui poderoso, io tecnico. Davvero tra di noi non c’era un vincitore e uno sconfitto. Fu un avversario con il quale avrei potuto perdere senza disonore. Sarà già in una palestra celeste, non ho dubbi.