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Professoressa si finge nera per anni, poi confessa: “Ho costruito la mia vita su una violenta bugia”

Per anni la professoressa, che alla George Washington University teneva corsi su imperialismo e colonialismo, aveva ottenuto finanziamenti da istituzioni prestigiose come lo Schomburg Center for Research in Black Culture che aveva finanziato il suo ultimo libro "Fugitive Modernities" sul commercio degli schiavi

di F. Q.

Per anni ha finto di essere afroamericana, ma alla fine Jessica Krug, stimata docente di studi africani alla George Washington University, ha ammesso di essere in realtà una donna bianca, di religione ebraica, originaria di Kansas City. “Ho costruito la mia vita su una violenta menzogna“, ha scritto Jessica Krug sulla piattaforma web Medium, confessando di essere in realtà una donna bianca. Dopo la notizia, l’ateneo ha deciso di sospenderla dalla sua cattedra per sei mesi e in una nota spiega che “la signorina Krug non terrà corsi” per il “dolore provocato in molti studenti, docenti, impiegati ed ex allievi” e che il suo caso è ora “sotto esame”.

Conosciuta nei circoli della militanza di colore come Jessica La Bombalera, lo scorso giugno la Krug aveva parlato a East Harlem in una udienza pubblica sulla brutalità della polizia. Per anni la professoressa, che all’ateneo della capitale insegnava corsi su imperialismo e colonialismo, aveva ottenuto finanziamenti da istituzioni prestigiose come lo Schomburg Center for Research in Black Culture che aveva finanziato il suo ultimo libro “Fugitive Modernities” sul commercio degli schiavi.

Ora il mea culpa, forse istigato da un imminente “outing” sui media: “Ho basato la mia carriera su un tossico terreno di menzogne. Ho nascosto la mia vera esperienza di ragazzina ebrea di Kansas City sotto finte identità a cui non avevo diritto: prima nera nord-africana, poi afro-americana, poi nera caribica del Bronx“. L’università ha aperto un’inchiesta. Nella prefazione a “Fugitive Modernities”, uscito poco prima della confessione, la Krug dedica il suo lavoro ad “antenati sconosciuti e senza nome e a quelli, i cui nomi non posso fare per la loro sicurezza, vuoi nel mio barrio, in Angola o in Brasile”.

Problemi mentali, traumi infantili, potrebbero “spiegare ma non condonare” l’avere assunto per tanto tempo le finte identità, scrive la professoressa, il cui caso ricorda da vicino quello di Rachel Dolezal, ex leader della comunità afro-americana di Spokane, nello stato di Washington: cinque anni fa finì alla ribalta dopo l’outing dei genitori che avevano diffuso il certificato di nascita e una foto da bambina: bionda, pallida e lentigginosa.

A capo della sezione locale della Naacp, Rachel si era battuta per anni per i diritti della gente di colore ma aveva costruito la sua carriera presentandosi in pubblico e sui documenti ufficiali come discendente degli schiavi. Messa alle strette, aveva anche lei rivelato di aver subito traumi infantili e si era definita il primo caso al mondo di “trans-nero”.

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