L’opera seconda della sceneggiatrice Mona Fastvold è un enorme e raffinato clichè di scrittura. Protagonisti Vanessa Kirby, Katherine Waterstone e Casey Affleck che qui coproduce ripulendosi dagli schizzi del MeToo
Ridateci Brokeback Mountain. Passa in Concorso a Venezia 77, The world to come, il dramma rarefatto di un sussurrato amore e di una nascosta passione lesbica, tra le lande isolate della frontiera east cost a metà ottocento, e ti viene voglia di rivedere il Leone d’oro 2005 qui al Lido. Se Ang Lee abbondava in dettagli scabrosetti, in ditoni al neon per segnalare “oh questi si prendono di brutto”, la regista Mona Fastvold (moglie del regista Brady Corbet, nonché sua storica sceneggiatrice) lascia che il sentimento travolgente tra Abigail (Katherine Waterston) e Tallie (Vanessa Kirby), due vicine di fattoria, là dove basta mezzo metro e finisci con i piedi dentro ai grandi e freddi laghi, diventi un gelido anelito interiore di speranza futura tutto a beneficio del mondo che verrà (The world to come, of course).
Girato in 24 giorni in Romania, ripreso in 16 mm, con un cast tutto statunitense (tra cui Casey Affleck, coprotagonista, coproduce e si monda la fedina di molestatore MeToo), il film della Fastvold è un enorme e raffinatissimo clichè ambulante di scrittura e di cinema tout-court. Determinata a collocare con precisione quasi millimetrica spazio e tempo nella storia statunitense (“volevo ricreare lo sporco e il grezzo di quel periodo”) Fastvold oscilla tra un realismo spiccio alla Olmi de L’albero degli zoccoli, dove si sgozzano maiali e si spennano galline con le manacce nude, e una laccata confezione da salotto chic arredato coi prodotti Coin, dove il contado dello stato di New York beve aperitivi verso sera e dopo aver scavato per raccogliere patate, spalare letame, e pulire il becco alle galline, si ritrova con le unghie smaltate di fresco e i vestiti lindi privi di schizzi di fango (Affleck si indossa pure una corta sciarpina di seta uscendo dal cottage, e la Kirby sfodera un wonderbra appena uscito dalla lavatrice).
Gli interni da 1850 di frontiera brillano per finestre con spessi vetri antispiffero, persiane per occultare la luce, tendaggi sfarzosi, una stufa così tanto anni duemila quasi da vedere Affleck mentre si gira e ci versa dentro un sacco di pellet. Scontata l’inutilmente linda, attualizzata e astorica collocazione da bomboniera, ecco i dolori dei clichè caratteriali, somatici. Protagoniste del film, intanto, sono due coppie etero di veri e propri contadini. La prima composta da Abigail, moglie devota e addolorata del silente Dyer (Affleck); l’altra, quella dei nuovi arrivati, con una femme fatale da noir anni ’50 del calibro della Kirby (qui con capello rosso) assieme a Finney, il marito più puntuto e stronzo (Christopher Abbott). E figuriamoci se non sono i due uomini ad essere pigri, impotenti, superficiali (che noia che barba, ecco).
Chiunque, probabilmente anche una santa avrebbe voglia di scappare da quell’inutile tran tran di frontiera funestato, almeno nei primi dieci minuti, da una serie di disgrazie da medioevo, e da quella querula presenza maschile. Eppure nel caso della Fastvol, da sempre sceneggiatrice ma che lascia scrivere il suo film da due uomini (uno è anche l’autore del libro da cui l’opera è tratta), per liberare la passione dei corpi e dell’anima servono questi puntelli facilitatori. Ecco gli omacci cattivi – gli ‘aiutanti’ – pronti allo stupro ma nascosti nel fienile; il diario di Abigail letto con sofferta voce off a scandire il tempo che è, ca va sans dire, un poema indimenticabile; la vampona che abborda la bruttina facendosi massaggiare i piedi davanti al camino dopo una passeggiata nel bosco. Tutto così ampiamente contemporaneo (così si capisce meglio e non si vede la miseria dell’epoca), masticato, forzoso, digerito, scontato, piatto (il povero cromatismo un po’ offuscato da Est Europa trasformato in Est Usa non aiuta), tanto che il desiderio di astrazione, di far librare la storia nascosta tra le due donne oltre la dimensione dello spazio e del tempo relativo, va evaporare set, cast e ricordo del film dopo nemmeno un paio d’ore. Premio Michela Murgia, di consolazione, per aver svolto bene il compito sulla fluidità di genere, ma Leoni d’oro e Coppe Volpi almeno risparmiatecele.