“Sapevano, ma non hanno fatto nulla“. Ma anche: “Hanno sequestrato milioni di italiani senza motivo“. Da giorni – almeno una settimana – è soprattutto Matteo Salvini ad accusare il governo sulla – a suo dire – pessima gestione dell’emergenza coronavirus. E se Giorgia Meloni, negli attacchi a Giuseppe Conte, sta un passo indietro, il leader della Lega si è addirittura spinto ad affermare che il governo avrebbe la colpa di aver “condannato a morte migliaia di italiani“. Fino alla lettera pubblicata domenica sul Corriere della Sera, in cui il capo dell’opposizione sostiene che Conte “deve spiegare davanti a tutto il Paese perché ha taciuto i rischi del virus“, in riferimento al documento sui possibili scenari presentato al Comitato tecnico-scientifico il 12 di febbraio. Ma allo stesso tempo gli imputa di aver “affrontato l’emergenza con drammatica superficialità” per aver “ignorato il suggerimento degli esperti su una chiusura meno rigida, anziché il lockdown totale“. Insomma, da una parte avrebbe fatto troppo poco ma, sorprendentemente, dall’altra avrebbe fatto troppo. E il cortocircuito è servito.
LA VERA STORIA DELLO STUDIO “SEGRETO” – Ma le critiche di Salvini non si spiegano soltanto con l’approssimarsi di un appuntamento elettorale fondamentale per misurare la temperatura politica del Paese, quello cioè delle Regionali del 20-21 settembre. C’è, infatti, un passaggio ben preciso: la pubblicazione su Repubblica di parte del contenuto del così definito “piano segreto” redatto da Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler e illustrato al ministro Speranza dal direttore generale, Alberto Zoli, membro del Cts in qualità di delegato della Conferenza delle Regioni e direttore generale di Areu, l’azienda che si occupa del sistema di emergenza e urgenza in Lombardia. Non una novità, visto che Il Fatto Quotidiano aveva anticipato l’esistenza dello studio lo scorso 28 marzo e che la questione era esplosa alla fine di aprile, quando pubblicamente ne aveva parlato per la prima volta il direttore generale per la Programmazione sanitaria del ministero, Andrea Urbani. Già allora, in risposta alla bagarre dell’opposizione, si faceva notare come, a conoscenza del piano ritenuto “segreto”, ci fosse un dirigente che faceva sì parte del Cts ma anche dell’unità di crisi della Lombardia che lavorava gomito a gomito con Attilio Fontana e Giulio Gallera. E cioè il già citato Zorli, “speaker”, quel giorno, dello studio.
GLI AIUTI ALLA CINA – Prima dell’ormai famoso 12 febbraio, l’Unione europea aveva già inviato 12 tonnellate di Dpi al governo di Pechino. L’esecutivo italiano si era attivato da giorni, come confermato al Fatto.it da una fonte del Cts, per andare in soccorso della Cina che, quel giorno, registrava 42mila contagiati, pari a quasi il 98% dei casi in tutto il mondo. Così, il 15, spedisce in direzione Estremo Oriente circa 20 tonnellate tra mascherine, occhiali, tute e guanti. Germania, Francia, Austria e Stati Uniti stanno facendo lo stesso. Per il centrodestra, tuttavia, la solidarietà italiana è stata controproducente. Andare in soccorso al Paese più colpito dal Covid-19, sostengono, è stato un autogol, perché di lì a poco avremmo avuto bisogno noi dei dispositivi di protezione sanitaria. È vero, ma è altrettanto vero che il virus, in quel momento, non era ancora arrivato – e quasi nessuno prevedeva che si sarebbe diffuso in modo così travolgente – e soprattutto è vero che il gesto del nostro governo è stato abbondantemente ripagato da Pechino: nei primi cento giorni che hanno sconvolto l’Italia, la Cina ci ha fornito circa 25 tonnellate di Dpi a settimana sia, ovviamente, nella forma della vendita, sia in quella della donazione.
PRIMA DEL PAZIENTE 1 – Dai palchi di Toscana, Abruzzo e Puglia calcati in questi giorni da Salvini e Meloni in vista delle Regionali, risuona quasi sempre lo stesso mantra, riferito alle due-tre settimane che hanno anticipato la scoperta del primo caso ufficiale di positività a Codogno. E cioè: “I negazionisti erano Conte e Zingaretti. Mentre noi chiedevamo la quarantena per i cittadini cinesi, loro ci rispondevano che l’unico virus in circolazione era quello del razzismo“. Ammettendo di voler inserire sotto il variegato cappello degli scettici da Covid della prima ora sia il capo del governo sia il segretario del Pd, si dovrebbe fare lo stesso con gli esperti che portiamo – o abbiamo portato – in palmo di mano in questi mesi. Mentre la Farnesina si impegnava a riportare a casa Niccolò, il 17enne rimasto bloccato a Wuhan, i virologi nostrani prevedevano già l’imminente picco epidemico. Tornando indietro di qualche giorno (il 2 di febbraio), quando era già stato dichiarato lo stato d’emergenza, Roberto Burioni dichiarava: “In Italia il rischio è zero. Il coronavirus non c’è e i continui allarmi non sono necessari”. Fabrizio Pregliasco, due giorni dopo: “Sono d’accordo con Burioni, la situazione mi sembra sempre migliore. I cittadini italiani non devono essere spaventati“. Massimo Clementi, che nel 2003 isolò per primo il virus della Sars al San Raffaele, il 5 di febbraio: “Non dobbiamo preoccuparci eccessivamente, le misure di contenimento prese a livello nazionale e internazionale sono state importanti. Le mascherine? Non servono per proteggersi, sono come la coperta di Linus“. Matteo Bassetti, il 9: “La situazione sembra sotto controllo. Basta proclami catastrofici. Che le cassandre si tacciano (il riferimento è diretto a Burioni, ndr)”. Giovanni Maga (direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare di Pavia), il 12: “L’aumento dei nuovi casi sta rallentando, potremmo essere vicini al picco epidemico”. Il 14, infine, l’European Centre for Disease Prevention and Control (l’Ecdc, l’agenzia dell’Unione europea che si occupa della prevenzione delle malattie) definiva “basso” il rischio che il virus si diffonda in Europa. La verità è che in quel periodo i casi totali, nel Vecchio Continente, si fermavano a 43. In Italia, poi, c’erano stati solo tre casi ed erano tutti di “importazione” cinese. E, come se non bastasse, da Pechino arrivavano informazioni contrastanti che anche l’Oms faticava a decifrare.
L’ORDINE ALLE REGIONI SULLE TERAPIE INTENSIVE – Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio Mattia Maestri risulta il primo positivo certificato. Da quel momento, le cose cambiano in maniera repentina. Accanto alla creazione delle zone rosse nei dieci comuni del Lodigiano e in quello di Vo’ Euganeo, il governo mette a punto i primi Dpcm, mentre le ordinanze del ministero della Salute non si contano più (il 23 saranno, addirittura, nove). È in quei giorni che Cts ed esecutivo, sulla base delle indicazioni che arrivano dalle Regioni, si accorgono che esiste un problema terapie intensive. I posti letto, nel Paese, sono 5.179. Troppo pochi, è il ragionamento, qualora ciascuna regione dovesse andare in sofferenza (quando, cioè, raggiunge la soglia del 30%). Così, l’1 di marzo il governo chiede ai presidenti di aumentare i posti letto del 50% e di raddoppiare quelli dei reparti di Pneumologia e Malattie infettive. Troppo tardi? Col senno di poi, probabilmente sì. La domanda da farsi, d’altra parte, è: se l’ordine fosse arrivato due settimane prima, quando il virus sembrava ancora lontanissimo, come avrebbero reagito i presidenti? Da quanto ha appresto ilFatto.it da fonti del Cts, infatti, si registrarono resistenze da parte di alcune Regioni perfino l’1 di marzo, quando la situazione era senza dubbio mutata. Dove il governo perde tempo è nel reperimento dei ventilatori per le terapie intensive: è il 5 di marzo quando il ministero della Salute indica alla Protezione civile un fabbisogno di 2.375 apparecchi tra ventilatori e caschi Cpap. Qui, sì, troppo tardi.
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