Nel febbraio 2016, all’inizio dell’avventura politica di Donald Trump, il Ceo di Cbs, Les Moonves, disse: “La sua candidatura non è un bene per l’America, ma è un dannato bene per Cbs”. Si era all’inizio delle primarie, la parabola di Trump sembrava un volo limitato nel tempo, destinato presto a dissolversi. Non andò così. Non soltanto il fenomeno Trump non si dissolse, ma il candidato repubblicano finì per conquistare la presidenza degli Stati Uniti. Contro ogni previsione, scommessa, sondaggio.

Si disse, allora, che i media avevano fallito, che non erano stati capaci di capire il “fenomeno Trump, che non avevano raccontato la “vera America”, quella che non vive sulle due Coste, quella che non risiede nelle principali città, quella che non viene raggiunta da troupe e dibattiti ma che comunque esiste e vota. In realtà, ciò che successe nel 2016 fu una singolare combinazione di circostanze. Da un lato c’era un (allora) candidato alla presidenza, capace di occupare gran parte dello spazio su tv e giornali con le proprie sparate, uscite polemiche, tweet. Più che a raccontare gli angoli più lontani e oscuri d’America, i media si trovarono a inseguire la retorica incendiaria di Trump – che, come indica la dichiarazione di Les Moonves, conveniva in termini di ascolti e introiti pubblicitari. Ci fu però anche un altro fenomeno, in atto ormai da diversi anni. I piccoli giornali e le tv locali chiudono e i grandi media nazionali tagliano i loro budget. Sono dunque sempre meno i giornalisti che riescono a raccontare il vasto territorio americano, la sua gente, i suoi problemi.

L’esperienza potrebbe ripetersi nel 2020. A partire dal 2004, circa 1800 giornali hanno chiuso negli Stati Uniti. L’esplosione dell’emergenza coronavirus ha accelerato il processo, con circa 50 pubblicazioni che hanno dovuto chiudere i battenti negli ultimi quattro mesi. La crisi tocca giornali antichi e più recenti avventure editoriali. A maggio ha chiuso il glorioso “Journal-Express” di Knoxville, Iowa. Lo aveva fondato, nel 1855, William Milo Stone, che più tardi diventerà un eroe della Guerra Civile. Il “Journal-Express” si è in realtà fuso con un giornale altrettanto antico, l“Oskaloosa Herald”, che usciva ormai solo due volte a settimana. Fusione vuole comunque dire soprattutto una cosa. Meno giornalisti, meno copertura del territorio, meno storie da raccontare. A marzo ha chiuso anche il “Waterbury Record”, fondato nel 2007, che sulla prima pagina del suo ultimo numero spiegava che “la pandemia ha accelerato quello che speravamo non dovesse mai accadere”.

Il caso dell’uragano ignorato in Iowa – Ciò che dobbiamo aspettarci è dunque, con ogni probabilità, un’informazione locale ancora meno ricca rispetto al 2016. C’è, da questo punto di vista, un dettaglio interessante. Ad agosto proprio l’Iowa è stato travolto da una tempesta di vento che è stata l’equivalente di un uragano di Categoria 2. Nelle aree più colpite, per esempio Cedar Rapids, le distruzioni sono state così vaste e profonde che dopo settimane le operazioni di ripulitura dei danni erano ancora in corso, tra fattorie sventrate, raccolti distrutti, reti elettriche saltate. Ebbene, la storia ha avuto pochissimo risalto sui media nazionali, tanto che alla Convention repubblicana la senatrice dell’Iowa Joni Ernst ha accusato di indifferenza i giornali, per i quali l’Iowa resterebbe “flyover country”, quella parte della nazione che si sorvola in aereo, volando da una costa all’altra. L’attacco di Ernst, una tra le principali sostenitrici di Trump al Congresso, era ovviamente interessato: prendersela con i media è uno dei modi più sicuri per infiammare la base conservatrice. Ma su una cosa Ernst aveva ragione. La tempesta in Iowa è rimasta sconosciuta alla maggioranza degli americani.

Sempre meno temi trattati – Il fatto è che la progressiva chiusura di piccoli giornali ed edizioni locali si è accompagnata a un altro fenomeno, che riguarda soprattutto i giornali nazionali. E cioè la progressiva riduzione dei temi di informazione affrontati. Anche qui è possibile ricorrere a qualche dato. Il Media Cloud Indexes, che esamina migliaia di pubblicazioni in giro per gli Stati Uniti, ha rilevato che il 50 per cento degli articoli pubblicati nel 2013 rientrava in 37 categorie tematiche. Il 50 per cento degli articoli pubblicati nel 2019 faceva riferimento a 24 categorie. E sono solo 14 le categorie che hanno raccolto la metà degli articoli nei primi sei mesi del 2020. Ciò significa che la varietà degli argomenti affrontati si è ridotta sensibilmente. Le storie che giornali e tv raccontano sono sempre più simili e omologate. Persino soggetti un tempo popolarissimi hanno oggi molta meno voga. Prendiamo lo sport. Nel 2014, il 7 per cento degli articoli dei giornali americani era occupato da pezzi di taglio sportivo. Nel 2019 la percentuale si è ridotta al 5,2 per cento.

Chi vince sui media? Chi è divisivo – Non è difficile capire le ragioni del fenomeno. In un’America polarizzata come non mai, sono personaggi, eventi, fenomeni fortemente divisivi, estremi, radicalizzati, a conquistare maggiore spazio. La cosa riguarda anzitutto Donald Trump, che ha ottenuto in questi anni una copertura giornalistica sconosciuta ai suoi predecessori. Nel 2014, quando Barack Obama era presidente, il suo nome appariva in un articolo su dieci di un grande quotidiano nazionale (ancora dati di Media Cloud Indexes). Oggi il nome di Trump appare in un pezzo su quattro. Il presidente è ovunque, rincorso per ogni sua battuta, tweet, intervista, provocazione, insulto, uscita pubblica e privata. Ciò ha portato a un’inevitabile prevalenza della politica nazionale rispetto ad altri argomenti – gli affari internazionali, l’economia, la cultura – e ha reso ancor più urlato il dibattito politico americano.

La “prevalenza” di Trump e della politica interna può essere scalfito solo da eventi altrettanto estremi e polarizzanti. Per esempio l’emergenza coronavirus – spesso in testa ai titoli dei maggiori quotidiani nazionali di queste settimane – o le proteste per la giustizia razziale. Il caso di George Floyd è a questo proposito illuminante. Il 21,5 per cento degli articoli pubblicati nella settimana successiva all’uccisione di Floyd conteneva il suo nome o il termine “Black Lives Matter”. Ma attenzione. Solo fatti che suscitano profonde divisioni – e vaste proteste di piazza e incidenti come appunto la morte di Floyd – conquistano spazio sui giornali. Breonna Taylor, la ragazza di 26 anni uccisa da tre agenti di polizia nel suo appartamento di Louisville, Kentucky, ha ricevuto scarsissima attenzione: il suo nome è apparso soltanto nel 2,5 per cento degli articoli nazionali nella settimana successiva alla sua morte. A nulla è valsa l’indignazione per il fatto che gli agenti non siano stati nemmeno indagati (solo uno è stato licenziato). L’omicidio di un uomo o una donna neri non basta a creare una “storia”. Ci vuole il seguito di scontri e tensioni – ed eventualmente di altri morti – che riescano a inquadrarsi nella più larga trama che è tipica dell’America di Trump: quella di un Paese devastato dalle divisioni.

Il rischio di una replica del 2016 – Le presidenziali 2020 rischiano quindi di assomigliare terribilmente a quelle di quattro anni fa. Con un campo informativo nettamente spaccato tra i pro e i contro a Trump, con scarsa copertura – e quindi comprensione – dell’America lontana dai centri della politica, con un presidente che riesce a monopolizzare gran parte dell’attenzione. C’è, è vero, una differenza importante rispetto al 2016. Allora Trump sorprese l’America con una vittoria in cui pochi avevano davvero creduto. Oggi Trump è il presidente e la possibilità che resti alla Casa Bianca è reale: una possibilità non facile, secondo molti sondaggi che danno Trump in svantaggio su Biden, ma comunque una possibilità. Su una cosa il presidente ha comunque già vinto: e cioè nel fare di se stesso la storia giornalistica più importante di cui tutti – amici e nemici – devono occuparsi.

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