di Carmelo Zaccaria
Nel suo ultimo romanzo intitolato Riccardino, il maestro Andrea Camilleri irrompe sul proscenio delle indagini “di pirsona pirsonalmente”. Telefona al commissario Montalbano comunicandogli la propria delusione per la lentezza, certo dovuta alla vecchiaia incombente, con cui sta portando avanti l’inchiesta sul nuovo caso di omicidio avvenuto a Vigata. Lo esorta quindi a non prendersela troppo comoda, per non metterlo in imbarazzo davanti alle legittime aspettative dei suoi tanti lettori, lo prega di smettere di “babbiare” come vede fare spesso all’altro commissario Montalbano, quello della serie televisiva, diventato ormai molto più famoso di lui e con cui, inevitabilmente, finisce per confrontarsi.
Insomma si arriva ai ferri corti, ad una vera e propria competizione tra l’Autore che sta scrivendo la trama del libro e il commissario che, come protagonista della storia, la sta mettendo in pratica. Si avverte, leggendo il libro, come uno straniamento, uno sdoppiamento dell’io, un gioco delle parti pirandelliano in cui realtà e apparenza, vero e falso, ciò che si è e ciò che si crede di essere, si intrecciano e si rincorrono.
Camilleri aveva da tempo pianificato l’uscita di scena del commissario, scrivendo questo libro all’età di 80 anni e posticipando la sua pubblicazione a dopo la sua dipartita. Era giunto ormai il tempo di regolare i conti con il suo alter ego, di misurarne l’ingombro, di deciderne le sorti, e lo fa attraverso un epilogo paradossale ispirato al dramma di Beckett, Finale di partita, a lui tanto caro per essere stato il primo a volerlo rappresentare in Italia, come regista teatrale. Solo che mentre in Beckett i protagonisti della partita a scacchi sono già segnati da un destino vuoto e insensato, Camilleri dipinge un quadro denso di palpitante vitalità.
Nessun personaggio sopravvive al suo autore. Don Chisciotte muore con Cervantes, così come Maigret può esistere solo nelle pagine di Simenon. Personaggio e autore tuttavia restano legati intimamente nella vita e nella morte, perseguendo una strenua “lotta con il proprio doppio” che non è solo semplice afflato romanzesco, ma una condizione congenita, viscerale, della natura umana in quanto ognuno è “l’alter ego” di un altro se stesso, con cui perigliosamente convive.
In questo romanzo d’addio Camilleri richiama per intero la sua “sicilitudine”, alimentata da un profondo senso di comunanza verso i propri simili, pervasa da profondi sentimenti di amicizia, perennemente turbati dall’ossessione del tradimento. Una personale visione del mondo affollato da donne mature e lussuriose che, con il loro silenzio e il loro incedere luccicante, rendono fascinoso il ritmo del tempo.
Camilleri non ha mai pensato di far scomparire il commissario per cercare di salvare se stesso. E, d’altra parte, farlo uscire di scena in modo poco dignitoso, abbandonarlo ad un triste destino, magari lasciandolo morire durante un conflitto a fuoco, sarebbe stato troppo penoso e lacerante per un sodalizio illustre e longevo come il loro. Avrebbe significato per l’Autore uccidere se stesso, morire due volte, come accade nel finale di Wiliam Wilson, personaggio di un racconto di E. A. Poe, che esasperato da una estenuante lotta con il proprio se stesso, che lo perseguita per tutta la vita, decide di liberarsene pugnalandolo a morte, senza accorgersi che uccidendo l’altro moriva anche lui ed era “come se avesse assassinato se stesso…solo che lui era già morto”.
Per questo Camilleri preferisce lasciare ancora una volta campo libero a Montalbano nello scegliersi da solo, e con dignità, la maniera più congeniale di congedarsi, di svanire, di far perdere le proprie tracce eclissandosi tra le righe del libro. Allo scrittore non rimane altro che accompagnarlo nel suo ultimo tragitto, prendendosela comoda, un piedi metti e l’autro leva, godendosi simultaneamente lo stesso sogno, fino alla fine.