Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2020, Notturno sinfonia del reale ed è così da un angolo di mondo in guerra Rosi “trasmette” cinema

Girato in quella Siria caotica, frammentata, multiforme "il film nasce dove si interrompe il titolone o la breaking news” dice il regista già premiato con il Leone d'oro per il suo documentario Sacro Gra

di Davide Turrini

Più vedi il documentario Notturno di Gianfranco Rosi più ti accorgi della forza del reale che può trasmetterti il cinema. Secondo italiano in Concorso a Venezia 77, l’opera sesta del regista italiano è un ritorno maestoso alle origini di un rigoroso percorso estetico ed etico che all’epoca del Sacro Gra avevamo, paradossalmente, un po’ perso di vista. Dicevamo del cosiddetto “reale”. Qui un angolo di mondo in guerra. Quella Siria caotica, frammentata, multiforme, con almeno cinque forze militari in campo da quasi un decennio. Ebbene, Rosi non filma il conflitto armato (e per questo potrebbe prendersi parecchie critiche più politiche in senso lato). Non vuole usare la macchina da presa, il mezzo cinema per fare politica (dicotomia: questo è buono/questo è cattivo), ma va in quel luogo, anzi in più luoghi (Siria, Kurdistan, Libano, Iraq), percorre una frontiera impossibile, un lembo di terra un giorno in mano ai curdi, l’altro all’Isis, un giorno alle truppe del governo di Assad, l’altro ai ribelli. Si ferma, osserva, e filma.

Sono due strade diverse del documentario: una programmatica e precostituita; l’altra più libera, aperta, porosa. “Il film nasce dove si interrompe il titolone o la breaking news”, ha spiegato il regista in un incontro con la stampa al Lido. Ed è vero: non c’è nulla di sensazionalistico nei ritrovamenti narrativi di Notturno, crogiuolo di storie, tra le quali quella di un cacciatore di frodo, di una madre con la figlia rapita dall’Isis, di un orfanotrofio di bimbi yazidi, di un ragazzino che lavora a giornata, di un manipolo di soldatesse e soldati curdi in un posto di guardia isolato, di un gruppo di malati di mente che mette teatralmente in scena la storia della patria siriana. Notturno però non ha una vera e propria trama. Il filo narrativo si crea nel montaggio tra contesti e personaggi differenti continuamente rimescolati come se le tante frontiere sparse migliaia di chilometri di distanza fossero un unico luogo di vita separato di pochi metri dall’inferno, esposto sotto il tiro di quella guerra che si intravede e si sente non lontanissima. Anzi, a dire la verità, una trama Notturno ce l’ha ed è quella del senso che sprigiona dalle proprie immagini. Qualcosa che va oltre la ricerca della “bellezza” e che si situa in una specie di caverna buia illuminata da un vivida luce. Metafora di un cinema che ancora resiste nella sua essenza primordiale e peculiare.

Guardate tutto il bordone del cacciatore di frodo. Un lungo silenzioso avvicinarsi, in un buio esterno notte, con il tizio su una barchetta in mezzo alla palude, e la macchina da presa di Rosi qualche metro più indietro, rivolto verso i bombardamenti rosso fuoco lì sulla linea dell’orizzonte. Ecco, in tutto questo blocco, sparpagliato con attenzione in almeno tre differenti punti di film, Rosi compie una ricerca/sperimentazione visiva incredibile. Ovvero illumina la scena non grazie all’impianto luci della produzione (che non c’è), intromettendosi, schizzando il quadro del reale, ma, appunto, facendo nascere la luce all’interno dello spazio inquadrato, da una fonte diegetica che può essere una lampada o una sigaretta tenuta in mano dal cacciatore di frodo protagonista di quel segmento. E poi qualcuno si chiede perché si debba intitolare Notturno quando il film ha sequenze girate anche di giorno. Intanto perché l’opposizione luce/buio (l’altra opposizione altrettanto cruciale è quella tra i silenzi e i rumori-suoni) è uno dei contrasti risolutivi di questa opera d’arte tout court. E poi perché gli interni giorno, non tantissimi, a dire il vero, vivono di una penombra che tende a nascondere, ad acquietare, a tenere lontano i soggetti documentati, dal clamore sfavillante della luce. E ancora perché gli esterni giorno sono zeppi di nuvole e di pioggia, di oscurità meteorologiche che fanno del film una sinfonia autunnale, livida, vagamente contrita. Infine, il centro del discorso, il vero atto politico di questo Notturno. Ricordando che per mettere insieme tutto questo materiale umano e reale Rosi ci ha messo tre anni, c’è una sequenza che arriva oltretutto oltre i 60 minuti canonici della classica svolta narrativa delle ricette standard.

La macchina da presa registra l’incontro con alcuni orfani yazidi sterminati dalle barbarie dell’Isis. L’inquadratura varia da un fronte macchina in tre quarti, figure intere e primi piani dei bimbi che raccontano prima a voce e poi mostrando i loro disegni, gli atti disumani di tortura, violenza e morte subiti dai propri genitori, parenti, amici. Ecco, noi ci ritroviamo senza accorgercene a guardare i disegni appesi alle pareti mentre il bimbo che li ha realizzati li descrive grossolanamente, ingenuamente, come un ottenne può fare di fronte a bestie che bruciano vive le persone in nome di chissà quale dio. Notturno ha qui il suo apice vibrante e mostruoso. Un pozzo profondo dove incontra l’abisso della (dis)umanità. E non c’è bisogno dell’inquadratura contestata di Fuocoammare (che un tantino pornografica era), basta il fuoco sacro della rappresentazione, del mezzo e dello strumento di filtro che evitano proprio quella pornografia diretta della sguardo, adottando una “giusta distanza”, mezzo metro in più o mezzo meno per non sfondare il limite del rispetto verso il prossimo. Rappresentazione che in Notturno va declinata, oltre che nei disegni dei bimbi, anche attraverso lo spettacolo teatrale messo in scena dai pazienti del manicomio, oppure all’interno di quello smartphone dove l’anziana madre aziona l’icona play per ascoltare la voce disperata della figlia finita donna islamizzata dai militari terroristi. Infine, ancora una considerazione su questa sinfonia per gli occhi. Rosi ha spiegato che questo film parla del “senso di sospensione del futuro”. Tanto che ci lascia con quel mezzo busto di Alì, il ragazzino, che ci guarda, basculante sul precipizio di un paese e di una guerra che non sembrano aver mai pace. E nel post Covid ci sembra avere tante più affinità coi suoi coetanei lontani dalle guerre da far venire i brividi. “Inizio a girare senza mai sapere cosa succederà dopo”, ha esemplificato Rosi il suo approccio stilistico. E questo è il miglior viatico per un documentarista, in barba alle film commission che vogliono le sceneggiature pronte prima di girare. La realtà va colta all’improvviso, quando capita, quando è necessario. Impossibile prepararla sulla carta. Che Rosi sia tornato a questa matrice primigenia, tanto di cappello. E si spera, di Leone d’Oro.

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