Purtroppo Ebru Timtik non ce l’ha fatta ed è morta dopo 238 giorni di sciopero della fame. Una forma di lotta nonviolenta ma estrema, che ha messo a nudo di fronte al mondo intero la natura liberticida ed autoritaria del governo di Erdogan. Per me un vero e proprio assassinio, specialmente alla luce dei ripetuti rifiuti delle autorità turche di adottare provvedimenti che tenessero conto delle condizioni di salute di Ebru. Un governo che mette in galera gli oppositori, gli intellettuali, i politici non allineati, i sindacalisti, i giovani, le donne, gli avvocati, i magistrati.
Tutti coloro, insomma, che un regime che abbina fondamentalismo islamico, neoliberismo esasperato, nazionalismo aggressivo, e, ultimo ma non meno importante, volontà proterva di servire sempre e comunque gli interessi dello “Stato profondo”, casta di funzionari civili e militari che continua a decidere le sorti della Turchia e dei suoi popoli.
Erdogan è in realtà consapevole della crisi che il Paese sta attraversando e ciò spiega la brutale repressione che continua ad abbattersi su settori crescenti della popolazione del Paese, così come spiega l’aggressività sul piano internazionale, che si accompagna agli equilibrismi in politica estera, coi bombardamenti contro i Kurdi in Rojava ed altrove, gli interventi in Libia e le tensioni con i Paesi confinanti nel Mediterraneo, dove il regime turco avanza pretese sulle risorse petrolifere esistenti nella piattaforma continentale.
Questo espansionismo volto a celebrare un revival ottomano costituisce un ulteriore elemento di tensione in un quadro mediterraneo dove si confrontano piccole potenze tutte estremamente autoritarie, dalla Turchia di Erdogan, all’Egitto di Sisi, dall’Arabia Saudita del Sultano amante della sega elettrica, all’Israele di Netanyahu.
Inutile aggiungere di come si registri, in una situazione del genere, un crescente pericolo di guerra generalizzata, nel quadro globale contrassegnato dal crollo verticale della credibilità ed autorevolezza della superpotenza statunitense, il cui condottiero, Trump, risulta peraltro essere in ottimi rapporti con Erdogan. Senza peraltro che quest’ultimo disdegni, nell’intelligente consapevolezza dell’inarrestabile declino della superpotenza statunitense, di cercare altre alleanze ed altri approdi.
La reazione dell’Europa non lascia ben sperare. A fronte di una generalizzata protesta degli avvocati anche per mezzo delle loro organizzazioni rappresentative – i giuristi democratici ed altri organismi hanno convocato un’importante manifestazione per venerdì 11 settembre alle ore 14.30 a Piazza Montecitorio – gli organi di informazione si sono in genere limitati a vieti pistolotti contro i regimi autoritari in genere, mettendo in un unico calderone Erdogan, Putin e Lukashenko, ma guardandosi bene dal criticare i sauditi e gli egiziani, per non parlare del governo israeliano che pure continua a macchiarsi di quelli che per me sono crimini contro l’umanità, per i quali sarà presto giudicato dalla Corte penale internazionale.
Occorre invece un’iniziativa volta alla democrazia e alla pace nell’intera area medio-orientale che veda una profonda rifondazione democratica di tutti gli Stati dell’area, superando gli elementi di settarismo religioso ed etnico che li hanno finora contraddistinti ad esclusivo beneficio delle potenze imperialiste. Le forze europee più avanzate dovrebbero farsi interpreti di quest’esigenza, obbligando l’Unione Europea nel suo complesso all’immediato blocco della vendita di armamenti agli Stati dell’area e a un impegno concreto per lo Stato di diritto e la salvaguardia dei diritti umani in tutta l’area.
La lotta per la liberazione dei prigionieri politici in Turchia, a partire da quella degli avvocati incarcerati per aver svolto con serietà, abnegazione e coerenza il proprio mestiere, costituisce parte integrante di tale impegno e ne deve anzi rappresentare l’elemento più urgente e indilazionabile. La liberazione per motivi di salute di Aytaç Unsal, che ha condiviso con Ebru lo sciopero della fame ed ha ora fortunatamente deciso di interrompere lo sciopero della fame, deve essere seguita da quella di tutti gli avvocati e tutti i prigionieri politici ancora in carcere, che sono varie decine di migliaia e che sono rimasti in carcere nonostante il regime abbia deciso di liberare novantamila detenuti comuni a seguito della pandemia di Covid.
Poco c’è da sperare da un’Unione Europea pronta ad indignarsi per ogni starnuto di Maduro ma che rimane zitta e immobile di fronte alle violazioni evidenti dei regimi medio-orientali e di quello turco in particolare. Colpisce anche in modo inquietante la circostanza che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo avesse negato l’esistenza di un pericolo imminente per la salute di Aytaç, pericolo poi invece ravvisato dalla stessa Corte suprema turca che ne ha disposto la liberazione, dimostrando un coraggio maggiore di quella europea. Ma nulla deve essere lasciato di intentato per mettere l’Europa di fronte alle sue responsabilità storiche nella regione, che sono enormi e tremende.