Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2020, Crazy, Not Insane: docu-thriller su domande eterne e insolvibili

Alex Gibney dall’incontro con la psichiatra forense Dorothy Lewis ha sviluppato un racconto anche fortemente politico

di Anna Maria Pasetti

Cosa si nasconde nel cervello di un killer? E, in definitiva, cosa spinge veramente le persone a uccidersi fra loro? Su domande eterne (e insolvibili) si posa lo sguardo instancabilmente curioso di Alex Gibney che dall’incontro con la psichiatra forense Dorothy Lewis ha sviluppato Crazy, Not Insane, in Mostra oggi fuori concorso.

Pioniera degli studi sul disturbo da personalità multipla (oggi noto come Disturbo Dissociativo dell’Identità, DID), la Lewis ha messo a disposizione del grande documentarista la propria vita, intesa come scienziata, artista (è anche pittrice) e “umanista” nel senso del suo approccio ai pazienti. Questo è mostrato nel corposo archivio video delle sedute tenute dalla specialista con diversi suoi pazienti, alcuni dei quali divenuti celebri come il puri-omicida Ted Bundy, il “cannibale” Arthur Shawcross, il ben noto killer di John Lennon, Mark David Chapman, la maggior parte dei quali condannati a morte. Ed è proprio il tema della pena di morte, intensificata in alcuni States sotto l’amministrazione Trump, a diventare luogo del dibattito di Crazy, Not Insane laddove è opinione della Lewis che sia ingiusto (“illecito benché legale”) uccidere un criminale che non è responsabile delle proprie azioni, asserendo che questi criminali psicotici sono (o sarebbero stati) molto più utili per lo studio scientifico delle casistiche. Ciò che condanna la scienziata, piuttosto, è l’infanzia di abusi a cui la maggioranza dei criminali seriali – dediti a violenze atroci – è stata vittima, avendo lei in prima persona scoperto e dimostrato la veridicità di tale opinione.

Costruito come ogni testo di Gibney sulla struttura di avvincente docu-thriller, Crazy, Not Insane si concentra completamente sulla figura e l’opera della dottoressa Lewis mostrandone footage biografici e delle sedute, ma anche una lunga intervista recente in cui alla scienziata oggi pensionata è dato modo di articolare il suo universo di studi, spesso ostracizzato se non mobbizzato perché contrario alle lobby politiche pro-pena di morte.

Ciò che è davvero interessante nel tessuto narrativo è che dal focus sul lavoro di una psichiatra emerga il rapporto fra realtà e immaginazione, verità e finzione ovvero le istanze fondative del cinema stesso. Come è possibile dimostrare che il rapporto psichiatra-paziente affetto da DID non sia “viziato”? Come ancora dimostrare che le diverse personalità – delle quali solo una è “criminale” – manifestate dai killer siano veramente frutto di un disturbo psichico, quando non addirittura neurologico, e non la loro volontà seppure inconscia di essere interessanti? Si tratta di un labirinto d’indagine tanto controversa quanto affascinante, non a caso nel corso della sua professione da psichiatra forense la Lewis fu contatta nel 1990 da Martin Scorsese perché Robert De Niro voleva conoscere uno dei suoi pazienti affetti da personalità multipla per meglio prepararsi al ruolo di Max Cady in Cape Fear. In tal caso si assiste alla esemplificazione concreta di tale rapporto, così insondabile lungo la sottile linea che connette il conscio con l’inconscio. Opera naturalmente politica come ogni film di Gibney, sarà programmata su HBO (la vedremo in Italia probabilmente su Sky) e precede un nuovo trittico di film che l’instancabile regista sta ultimando, uno dei quali legato alla “sciagurata risposta dell’amministrazione americana al Covid, una malattia completamente fuori controllo, un fallimento totale”.

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