Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2020, I Predatori inatteso e spiazzante esordio di Pietro Castellitto. “Film anti borghese e non anti fascista”

Accolto con forti dubbi dalla critica mainstream, ricordiamo che anche quando papà Sergio esordì alla regia nel 1999 con Libero burro, in molti storsero il naso e scrissero che quella strada dietro la macchina da presa si sarebbe fermata lì. Invece… In sala dal 22 ottobre. Assolutamente consigliato

di Davide Turrini

Aspettate tre, quattro minuti di film. Aspettate. I Predatori, opera prima di Pietro (non Sergio) Castellitto, a Venezia 77 nella sezione Orizzonti, si deve caricare come una bomba ad orologeria. Bizzarro, spiazzante, inatteso, divertente, I Predatori deflagra gradualmente ad ogni sequenza, ad ogni cambio di set, ad ogni rimescolamento di carte del destino (incrociato) dei suoi personaggi. Ad Ostia vive la proletaria e fascista famiglia Vismara. Il goffo e risoluto Claudio (Giorgio Montanini) gestisce l’armeria di uno zio delinquente e passa il tempo ad esercitare il figlio piccolo a sparare col fucile, a giocare a ping pong col fratello e condividere uno spazio in campagna (“l’avamposto”) con foto di Mussolini e fasci littori ovunque. A Roma vivono i borghesi ed intellettuali Pavone. La madre Ludovica (Manuela Mandracchia) è un’altezzosa e totalitaria regista di cinema; il padre Pierpaolo (Massimo Popolizio) è un compassato chirurgo in una clinica privata dove si pippa buona coca; il figlio Federico (interpretato da Pietro Castellitto), dottorando di antropologia viene escluso dal suo prof nella trasferta per riesumare le ossa di Nietzsche. Sarà prima la madre di Claudio ad essere soccorsa da Pierpaolo e poi Federico ad incrociare Claudio per una delicata compravendita. Le due famiglie, e relativo parentado (quanto è bella Giulia Petrini proletaria fascia?), si passano così vicino, si sfiorano, per qualche minuto si toccano e perfino si “confrontano”, ma viaggiano tutto il film su due binari separati.

Perché I Predatori non ha mai un vero e proprio apice narrativo, una svolta repentina, una resa dei conti. Bensì sequenze che durano diversi minuti, battibecchi, parolacce, baruffe fisiche, urla. Tra uomini, tra uomini e donne, tra giovani e anziani. Un graffiante helzapoppin socio-antropologico, eccentrico nella messa in scena, sfuggente come una saponetta nella trama, sopra le righe nei toni e nel linguaggio. Sicurissimo nel “bucare” intere sequenze di normale dialogo con gesti impossibili e sorprendenti. Due esempi? Il dirompente brano hip hop cantato a tavola dalla cugina di Federico con tutti i familiari Pavone impettiti, leccati e scandalizzati; Popolizio che si lascia cadere in piscina con il cocktail in mano per rompere un’altra scena insostenibile narrativamente. Castellitto regista, qui soprattutto sceneggiatore (la sua comicità paradossale va assolutamente studiata con i dialoghi alla mano), in scena sia come folletto comico bombarolo che come ostinato provocatore linguistico, cerca come un ossesso il taglio e la distanza migliore per una “sua” inquadratura ma, un po’ come il padre da regista, è nella direzione generale del cast, nel far muovere ed interagire gli attori in scena che eccelle come un navigato commediante. Tante le sequenze corali (citiamo quella dell’ospedale con i Vismara al cospetto della nonna ferita dove semplicemente ci si piega in due dalle risate) in cui è necessario muovere il capo nei veri angoli della scena (vuoi per montaggio rapido interno,vuoi perché lo sguardo viene obbligato a cercare i dettagli nel totale) per nutrirsi dell’humus predatoriale. Che poi non è altro, nella sua atipica rappresentazione degli umani, un forte messaggio politico. Perché anche se per qualche istante lo spettatore ipotizza che Castellitto voglia accarezzare l’idea di mostrificare i fasci, ecco che la deformazione colpisce tutti i personaggi anzi, si riversa con uno sguardo per nulla indulgente sui Pavone. “Nella nostra epoca c’è una classe che per essere predatrice necessita delle armi, e un’altra che ne ha di più raffinate: per questo, il mio è un film anti borghese e non anti fascista”, spiega Castellitto in conferenza stampa a Venezia.

“Oggi c’è una tendenza a schiacciare l’altro, chi non è della stessa campana, che appartiene più ai Pavone che ai Vismara. I fascisti sono più colorati ma non più velenosi. Lo squadrismo cambia faccia ed è più raffinato”. La battuta rivolta da Federico, alienato e irrefrenabile cervello in fuga da fermo, verso i genitori (“siete la prima generazione che era stronza da ragazzi”), la volontà di potenza nicciana che aleggia curiosa sul film, sparigliano culturalmente le carte dell’opera prima di un 29enne che invece di fare un film sui suoi coetanei, si posiziona ad altezza adulti e li giudica mica tanto velatamente con un certa foga distruttiva: “Non avessi incontrato Nietzsche leggendo Ferraris alla facoltà di filosofia non avrei fatto I predatori. Il sentimento che muove il film è carico di frustrazioni, di disagio. Percependo l’impossibilità di reinventare la modernità, c’è solo la possibilità di manometterla”. Accolto con forti dubbi dalla critica mainstream, ricordiamo che anche quando papà Sergio esordì alla regia nel 1999 con Libero burro, in molti storsero il naso e scrissero che quella strada dietro la macchina da presa si sarebbe fermata lì. Invece… In sala dal 22 ottobre. Assolutamente consigliato.

Mostra del Cinema di Venezia 2020, I Predatori inatteso e spiazzante esordio di Pietro Castellitto. “Film anti borghese e non anti fascista”
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