Ispirato dall’omonimo libro di Jessica Burden, l'opera nasce da sei mesi di vita nella wilderness americana attraverso 7 States con una troupe di 25 persone, pochi attori professionisti e diversi veri nomadi - denominati van-dwellers - nello spirito di perfetta integrazione e condivisione coerente al racconto stesso della pellicola
“Il dono più grande dei nomadi è stato insegnarmi una grande umiltà”. Visibilmente commossa, Frances McDormand è fiera di aver portato in concorso alla Mostra di Venezia Nomadland, il film che ha appassionatamente voluto, prodotto e interpretato da protagonista sotto la regia della sino-americana Chloé Zhao. Per motivi di sicurezza ha preferito non accompagnare fisicamente al Lido il film, tra i favoriti al Leone d’Oro, ma via Zoom ha tenuto insieme alla regista una conferenza stampa dove, come è sua consuetudine, si è generosamente e vivacemente espressa.
Ispirato dall’omonimo libro di Jessica Burden, Nomadland nasce da sei mesi di vita nella wilderness americana attraverso 7 States con una troupe di 25 persone, pochi attori professionisti e diversi veri nomadi – denominati van-dwellers – nello spirito di perfetta integrazione e condivisione coerente al racconto stesso del film. “Da queste magnifiche persone, ciascuna delle quali ha messo a disposizione la propria vicenda personale, ho imparato a chiudere la bocca e ad ascoltare. Ricordandomi che l’ascolto è la parte principale di ogni attore professionista” spiega l’attrice premio Oscar per Tre manifesti a Ebbing che rileva qualche somiglianza tra quel personaggio e Fern, “entrambe working class americane, entrambe davanti a scelte difficili della vita, entrambe devono elaborare un lutto”. Se i nomadi di Nomadland sono frutto di una scelta di vita basata sulla resilienza e soprattutto sulla condivisone sostenibile “contro il dominio del dollaro”, essi sono anche vittime della “disperazione economica del mio Paese, e in ultima analisi del mondo intero, ma non ritengo che Chloé abbia fatto un film statement-politico, anzi”.
In effetti, il terzo lungometraggio di Zhao è più un manifesto poetico che non una denuncia sociale, laddove la riconnessione fisica e personale con lo spazio senza frontiere, il tempo senza scadenze e la memoria come serbatoio esistenziale diventano il paradigma per la costruzione di un presente e un futuro alternativi, nel segno di una sostenibilità a 360°. Il mantra di questi novelli pionieri è la distinzione di Home da House, definendosi Houseless e giammai Homeless, essendo il concetto di “sentirsi a casa” ben distinto dall’abitare dentro un edificio. Com’è concepito visivamente e narrativamente, Nomadland si pone nella tradizione del racconto classico americano on the road rintracciando i valori fondativi delle radici culturali a stelle&strisce: il Viaggio come Sogno e Scoperta, la Natura primigenia in cui convivono paesaggi sconfinati e piccole pietre colorate che sembrano opere lunari. Se lo spirito dell’America migliore invade le atmosfere del film, al suo centro è concentrato il viaggio personale di Fern (McDormand), una donna prematuramente vedova che abbandona la città di Empire dove risiedeva col marito e lavorava nella fabbrica ora fallita, e sceglie di avventurarsi nella sfida del nomadismo e dell’impiego stagionale, anche presso l’infernale realtà di Amazon “che comunque offre lavoro” commenta McDormand. Linguisticamente tradizionale e senza elaborazioni strutturali innovative, il testo di Zhao riesce con buona sensibilità a restituire verità e dignità ai suoi protagonisti. Dopo la corsa veneziana, che si concluderà domani sera con la celebrazione dei premiati, inevitabile sarà la sua presenza tra i candidati ai prossimi Oscar.