E’ l’ultimo weekend prima dell’inizio della scuola, quella vera. In me s’agitano sentimenti opposti. Cambio idea e stato d’animo nel giro di una giornata. Un’ora. Una manciata di minuti a dire il vero. Mi alzo al mattino serena e riposata. Più o meno. Stato dell’ansia: sereno o poco nuvoloso. Rifaccio i letti aiutata dagli uccellini e dai topolini, non canto per decenza.
Do una scorsa alle notizie sulle prime pagine dei quotidiani. Stato dell’ansia: in avvicinamento. Non ce la faremo mai. Non dureremo quindici giorni, chiuderemo tutto, il contagio, il dilagare, la quarantena. Segue telefonata con la collega saggia: la razionalità riprende terreno. Ottimismo spruzzato con il cannone sparaneve, ma certo che ce la faremo, siamo preparati, abbiamo tutto quello che serve per fronteggiare l’emergenza, i dispositivi di protezione, i corsi di formazione. Sì. Può. Fare. Sento persino tuonare.
Poi leggo la lettera di inizio anno scolastico della ministra dell’Istruzione e sprofondo nello sconforto: oddio, questo è il discorso che si fa a quelli che sono stati scelti per le missioni suicide, prima li ringrazi e poi li mandi giù dal precipizio senza paracadute. Vedo avvicinarsi i quattro cavalieri dell’apocalisse, sono carini, mi offrono da bere. La rileggo dopo un bicchiere di prosecco: ma no, invece ha ragione, ce la siamo cavata lo scorso anno, possiamo farlo, farlo ancora, farlo meglio, sono pronta, prendo la spada di Uma Thurman in Kill Bill e vado.
Ma nel frattempo arrivano ventisette messaggi dalla chat delle Mamme Ansiogene che chiedono se gli alunni avranno una propria bolla personale, se verranno irrorati di disinfettante, se in caso di contagio ce li porteremo a casa noi del consiglio di classe infetto, fino ad avvenuta guarigione. No, decisamente non sono pronta, i banchi non sono abbastanza distanti, devo portarmi a scuola un metro da sarto per controllare le distanze, le salviette per disinfettare i gessi e un casco da motociclista per sputazzarci dentro in sicurezza quando spiego. Un senso di profonda amaritudine mi assale.
Dopo, però, incontro l’amica – si fa per dire – “avete solo delle balle voi insegnanti, state sul divano da marzo a rubare lo stipendio, tre mesi di ferie e adesso non volete tornare! Chiudetevi in quelle aulette puzzolenti, teneteci i nostri figli e insegnate loro qualcosa, che io devo andare a lavorare sul serio”. E allora lì mi incazzo, nel mio piccolo, come le formiche, e mi dico che la scuola mi è mancata sul serio, quella in presenza, che uno stillicidio come la didattica a distanza dove ho lavorato il triplo non lo voglio più, sono pronta, vado, faccio di tutto.
Ma poi arriva il bollettino serale, e i contagi crescono, e l’ansia cresce e cresce anche la pasta della pizza perché ho imparato a farla piuttosto bene mentre ero in lockdown e vivevo attaccata ad un computer per stare dietro a sei classi. Infine ecco il messaggio di un alunno: “Prof, lunedì torniamo davvero?” e una faccetta che ride, lì accanto. Stato dell’ansia: assente. Bastava quello. Domani, da capo.
Volevo giusto chiedere gentilmente al Ministero dell’Istruzione se fosse possibile, con il bonus docenti, acquistare oltre ai tablet e ai pc anche le benzodiazepine. E naturalmente da bere, nel caso.