di Mattia Zàccaro Garau

Che il suo nome derivi dal turco antico e significhi “bella terra dormiente e selvaggia” o dal russo e indichi in generale “ciò che è separato”, “ciò che sta a nord del nord”, poco cambia. Nel nostro immaginario collettivo la Siberia è il luogo bianco per eccellenza. Innevato e tormentato dai venti gelidi dell’artico. Questo senso comune è alimentato dalla sua temperatura media annuale, 4°C, che inverno scende a -20°C.

Le città che hanno fatto registrare le temperature più basse al mondo sono tutte e quattro nella steppa siberiana: Yakutsk, Verchoyansk, Oymyakon, Tomtor, con quest’ultima capofila a -71.2°C e tre ore di luce in dicembre. Ma c’è dell’altro: per noi la Siberia è anche luogo per antonomasia di deportazione, nei gulag novecenteschi o in simili campi di lavoro nei secoli precedenti. In molti, una volta tornati, ce lo hanno raccontato: più di tutti Aleksandr Solzenicyn, ma anche Anna Achmatova e, prima ancora, Fedor Dostoevskij.

La Siberia, la glaciale terra di confino del mondo, che noi utilizziamo comunemente per i nostri usi antonomastici, nella nostra testa pare immune agli incendi per sua stessa costituzione. Invece anche la Siberia brucia. E moltissimo, ininterrottamente dalla scorsa estate. La zona appartiene alla Federazione Russa, ne copre più di tre quarti del territorio. E da due anni viene divorata da incendi causati dal riscaldamento delle zone artiche.

Da poco è stata riscontrata la temperatura massima mai registrata nella steppa siberiana (38°C, il doppio del solito, a Verkhoyansk) e i 5°C di media annuale in più hanno prodotto un aumento del 400% dei fuochi. Ma il loro numero è difficile da calcolare: si accendono in zone inaccessibili, visibili solo attraverso satelliti.

Questo disastroso bilancio si ripercuote a valanga su tutto il pianeta: le emissioni di CO2 della zona sono aumentate a dismisura. Nella sola Repubblica di Sacha, l’amaro record dello scorso anno, 208 megatonnellate, è stato stracciato già dal parziale del 2020: 395. Aumenti di temperatura: clima secco e torba asciutta sono la ricetta infernale che sta incenerendo la Siberia, in un infuocato circolo vizioso.

Ma la prima scintilla di questo meccanismo è, senza più dubbio scientifico, la liberazione di CO2 fossile. Da tre secoli, in una escalation autodistruttiva, estraiamo e bruciamo carbonio imprigionato in terra da milioni di anni – permettendogli di legarsi all’ossigeno e di mutare in anidride carbonica. Questo gas a effetto serra contribuisce sostanzialmente al riscaldamento globale – che sta tramutando il pianeta in un luogo inabitabile.

L’assioma per cui sarà proprio il capitalismo a portarci all’estinzione è qualcosa di più, dunque, di un gioco retorico. È un cortocircuito ambientale, e così esistenziale, che ha raso al suolo, solo lo scorso anno, 4.5 milioni di ettari di territorio siberiano – pari a un sesto dell’Italia. Proprio il caso della steppa eurasiatica che brucia senza sosta, più di altri, diventa esemplare per spiegare quello che sta accadendo al mondo, a partire da quello che sta accadendo a noi.

Sta andando a fuoco ciò che credevamo non potesse neanche scaldarsi. Sta accadendo ciò che credevamo impossibile: la vita stessa si fa invivibile. E l’inferno senza sosta della Siberia non è altro che uno dei tanti esempi di tale ribaltamento – la cui causa è il capitalismo estrattivo. È la Natura che detta le regole: un suo rovescio procura automaticamente un testacoda nelle nostre credenze. Il paradigma-Siberia è esattamente questo: le nostre convinzioni vanno in frantumi di pari passo col frantumarsi del nostro habitat.

La speranza è che questa proporzionalità diretta possa valere anche per il processo inverso. E che noi tutti si torni, dalla Siberia, potendo scrivere non le Memorie di una casa morta, come Dostoevskij, bensì quelle di una casa, la nostra, quella globale, ancora viva.

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