Centoventisette partecipanti e solo 55 di questi tagliarono il traguardo. Tanti furono i pionieri della Maratona di New York, quelli che il 13 settembre 1970 percorsero per alcune volte il perimetro di Central Park applauditi da un centinaio di spettatori. La creatura di Vincent Chiappetta e Fred Lebow vedeva la luce 50 anni fa e quest’anno avrebbe voluto festeggiare i 50 anni alla grande ma, come già si sa da tempo, per la seconda volta nella sua storia non si disputerà (saltò già nel 2012 a causa dell’Uragano Sandy).
La Maratona di New York è diventata un simbolo della Grande Mela, essenza di una metropoli che riesce a fermarsi per alcune ore al passaggio del serpentone di corridori provenienti da ogni dove. Non a caso è la maratona più partecipata al mondo con oltre 50 mila podisti che inseguono il loro sogno correndo (e lo raggiungono). Un sogno che oggi costa circa 400 dollari di sola iscrizione. I “primi 127” pagarono un dollaro, al vincitore, Gary Muhrcke (col tempo di 2h31’38”), spettarono vecchi trofei e orologi non certamente preziosi.
Oggi per i top runner il montepremi sfiora il milione di dollari ma il valore reale di questa corsa sono le storie che scorrono lungo i 42 chilometri e 195 metri (26,2 miglia per gli americani) e quelle che arrivano fino al traguardo per testimoniare un lungo percorso iniziato molto prima dello start. Allenamenti e dedizione per chi guarda al risultato agonistico, battaglie personali e sofferenze diventate poi sfide che vengono amplificate da quel palcoscenico emozionale che è la Maratona di New York.
Saranno queste storie, fatte di lotte di genere, razziali, al male incurabile o ai limiti fisici. Sudore ma soprattutto lacrime, di gioia e gli applausi, per il primo e fino all’ultimo. La corsa in molti casi viene dopo, ma in 48 edizioni è stata fondamentale per costruire il mito della Nycm.
I grandi atleti sono arrivati dopo qualche tempo dalla nascita: una spinta decisiva alla crescita e al riconoscimento internazionale dell’evento è stata data da una donna, Grete Waitz, nove volte vincitrice con un record del mondo stabilito sul percorso newyorkese, di certo non facilissimo. L’elenco dei campioni che hanno tagliato a braccia alzate il traguardo posto all’altezza del Tavern on the Green, dentro Central Park, è lungo e non renderebbe giustizia a tutti. Sono campioni.
Mi permetto di fare il tifoso allora, e da italiano sono forte del fatto che da anni, la colonia di nostri podisti è la più numerosa fra i non americani. Al dominio di metà anni ottanta, tre edizioni vinte di fila con Orlando Pizzolato (’84 e ’85) e Gianni Poli (’86) ha fatto seguito, dieci anni dopo, il successo di Giacomo Leone (’96), a sorpresa, quasi come quello di Franca Fiacconi nel 1998, prima e unica italiana nell’albo d’oro della corsa.
Proprio la vittoria di Leone ha segnato lo spartiacque, quello che ha reso la Maratona di New York terreno di caccia per i talenti africani. Kenya, Etiopia, Eritrea, Marocco e poche pochissime eccezioni in questi ultimi 25 anni di dominio. A New York, la prima domenica di novembre arrivava il mondo intero per correre la maratona e il resto si incollava alla tv per guardarla, sognare la Grande Mela attraverso questo immenso spot promozionale.
Sognare di correrla è il gradino successivo, che si sale programmandolo, bisogna essere tra i fortunati ad accaparrarsi il pettorale ed essere in grado di terminarla in maniera decorosa (il limite massimo è fissato a 8 ore e mezza) per conservare la lucidità di comprendere dentro cosa si sta correndo, cosa si sta vivendo. Tutto questo speriamo di tornare a viverlo dall’anno prossimo, abbracci tra i finisher compresi. E questi ci mancano tanto.