La Londra settembrina dei rientri si mostra come una capitale insolita, con strade del centro poco trafficate e più saracinesche abbassate del solito. È una grande metropoli che si risveglia progressivamente da un lockdown non del tutto finito i cui effetti cominciano già a farsi sentire. Molti locali, uffici, scuole e università non hanno ancora riaperto e purtroppo molte attività probabilmente non riapriranno.
Infatti, come è già stato riportato a metà agosto, il paese ha subito durante il lockdown una contrazione del Pil del 20,4%. L’idea di una seconda chiusura spaventa certamente il paese, considerando che come in altri stati in Europa, il Regno Unito si trova in questo momento in piena seconda ondata di contagi da Covid-19. Per questa ragione coloro che hanno ricominciato a lavorare da luglio scorso stanno seguendo le regole governative e raccomandazioni che già ben conosciamo: mascherina obbligatoria, lavarsi spesso le mani e mantenere le distanze.
Nonostante i casi stiano aumentando, non si ha una piena consapevolezza della reale portata di questo incremento; come racconta il Guardian, molte persone testimoniano una grande difficoltà nel procedere con un test anche quando si trovano in presenza di sintomi da coronavirus.
Londra è anche la capitale di un paese che sta per completare il processo di uscita dall’Unione europea, iniziato già ufficialmente dal 31 gennaio scorso. In questa fase transitoria la Gran Bretagna è fuori dalle sedi decisionali Ue ma si trova ancora dentro al mercato unico e l’unione doganale fino al 31 dicembre. È proprio l’accordo commerciale l’ultimo nodo da risolvere tra Bruxelles e Londra, accordo che però sembra molto lontano dall’essere siglato, nonostante la vicina scadenza del periodo di negoziato.
Per questa ragione, il no deal al momento è una realtà sempre più concreta. Infatti, l’incontro tra la delegazione Ue e quella britannica dello scorso 18-21 agosto si era concluso praticamente con un nulla di fatto, come si può dedurre dai commenti su Twitter di Michael Barnier e le dichiarazioni di David Frost. Nonostante la situazione sia già di per sé complicata, non significa che quest’ultima non possa diventare ancora più complessa. Come si dice spesso citando una celebre scena del film Frankenstein Junior, “potrebbe andare peggio, potrebbe piovere!” e infatti, nel paese piovoso per eccellenza, ha iniziato a piovere sul bagnato.
Boris Johnson sta infatti procedendo con un ricatto, dicendo a Bruxelles che se non si raggiungesse l’accordo commerciale entro il 15 ottobre non solo si procederà con un no deal, ma verrà rimesso in discussione una parte di un accordo firmato da lui stesso l’anno precedente, che tra le altre cose contiene un protocollo sulla gestione dei rapporti commerciali tra il Nord dell’Irlanda e il Regno Unito dopo la Brexit.
Questa sezione del trattato prevede che se non si dovesse arrivare a un accordo tra Londra e Bruxelles sul commercio, l’Irlanda del Nord rimarrà nel mercato unico europeo, per evitare di creare un confine rigido tra la Repubblica d’Irlanda e il nord dell’isola. Questo protocollo serve anche per tutelare il Good Friday Agreement, un accordo faticosamente raggiunto tra il Regno Unito, la Repubblica d’Irlanda e partiti e sindacati nordirlandesi, alla fine degli anni Novanta, dopo decenni di sanguinosi conflitti e terrorismo (invito a leggere questo articolo della Bbc per eventuali approfondimenti). Boris Johnson rischia dunque di riaprire una ferita per la Gran Bretagna le cui conseguenze potrebbero essere potenzialmente molto pericolose.
Questa sua dichiarazione risulterebbe, in secondo luogo, una mossa senza precedenti; come fa notare la comunità italiana nel Regno Unito del Manifesto di Londra in un post su Facebook, siamo di fronte a un paese che unilateralmente decide di non rispettare una delicata parte di un trattato, violando il diritto internazionale, come dichiarato già da Brandon Lewis, ministro per gli affari nordirlandesi. Accordo, tra l’altro, che segue un progetto politico quale è la Brexit, su cui il leader conservatore ha costruito la sua carriera politica e la vittoria alle scorse elezioni di dicembre.
Le reazioni non si sono fatte attendere: come si può leggere in questo articolo del Reuters, i governi di Galles e Scozia si distanziano totalmente dalle posizioni di Johnson, affermando che questo comportamento rappresenta una tendenza generale del governo centrale a togliere sempre più potere decisionale e politico ai loro governi, e ovviamente alla stessa Irlanda del Nord. Dure anche le reazioni da parte dei partiti della Repubblica d’Irlanda e nordirlandesi, ma le risposte e atti che più invitano a riflettere sono proprio quelle di alcuni membri chiave del partito conservatore britannico.
Il segretario permanente del dipartimento legale del governo Jonathan Jones si è dimesso a causa di questa decisione e allo stesso tempo Theresa May, precedentemente a capo dell’esecutivo del Regno Unito, ha chiesto al primo ministro: “Come può il governo rassicurare i futuri partner internazionali che ci si può fidare del Regno Unito per quanto riguarda il rispetto degli obblighi legali degli accordi che sigla?”. L’Ue ha risposto a tono al braccio di ferro iniziato da Londra: il vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic ha incontrato il ministro britannico Michael Gove, il quale è stato esortato a ritirare le misure proposte da Boris Johnson entro fine mese, poiché in caso contrario l’Ue procederà con le vie legali.
Siamo dunque di fronte a una crisi profondissima del potere politico e delle istituzioni che lo esercitano legittimamente: violare un trattato internazionale di questa portata nel mondo di oggi significa che ciò che Boris Johnson ha concordato con la Ue un anno prima non è poi così vincolante l’anno successivo. Questa proposta verrà votata oggi nel parlamento più vecchio del mondo, in un clima di certo teso anche tra le file dello stesso partito di Johnson.
È oramai palese che il governo conservatore non possiede alcuna strategia per la Brexit. Per questa ragione il dialogo di negoziato si è trasformato in un pericoloso conflitto a colpi di ricatti. È necessario a questo punto chiedersi come salvaguardare la credibilità delle istituzioni britanniche e il diritto internazionale: per farlo sarebbe necessario partire con una richiesta a gran voce delle dimissioni del primo ministro britannico.