E’ partito alla Camera dei Comuni britannica l’iter del contestato progetto di legge presentato dal governo Tory di Boris Johnson sul dopo Brexit. Un testo che mira a rimettere platealmente in discussione alcuni degli impegni assunti con l’Ue in sede di divorzio, in particolare sul protocollo relativo alla delicata questione dei confini dell’Irlanda del Nord, e che Bruxelles ha intimato di ritirare pena azioni legali e stop ai negoziati sulle relazioni commerciali future. Ma Londra non cede, a dispetto delle critiche incassate da diversi deputati ed ex ministri dello stesso gruppo conservatore. E lo spettro dell’uscita senza accordo – “no deal” – terrorizza il settore auto europeo, che paventa 110 miliardi di euro di perdite commerciali nei prossimi cinque anni.
A criticare la mossa di Johnson sono stati anche cinque ex inquilini di Downing Street: i laburisti Tony Blair e Gordon Brown e i conservatori John Major, Theresa May e David Cameron, che diede le dimissioni dopo l’esito del referendum che aveva promosso scommettendo su un esito ben diverso. Ma il premier, intervenendo alla Camera dei Comuni, ha difeso il ddl dicendo che sosterrà l’impegno del manifesto dei Tory a garantire un commercio “senza restrizioni” tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord dopo la Brexit. E ha accusato Bruxelles di voler interpretare in modo “estremo” il protocollo sull’Irlanda del Nord contenuto nell’accordo di divorzio, fino a un possibile “blocco del trasporto di prodotti alimentari e agricoli all’interno del nostro Paese” e alla pretesa di “dazi” al confine interno britannico fra Ulster e resto del Regno Unito.
Johnson ha attaccato a muso duro l’atteggiamento negoziale dell’Ue per difendere la mossa controversa di una legge interna che non esclude la violazione del diritto internazionale. I 27 “minacciano di imporre dazi doganali, dazi di confine all’interno del nostro Paese e di dividere la nostra terra“, ha tuonato, denunciando questo come una contraddizione rispetto all’articolo 4 dello stesso protocollo nordirlandese: “in base al quale, e cito, ‘l’Irlanda del Nord resta parte del territorio doganale del Regno Unito”. “Noi – ha poi rincarato – non possiamo immaginare una situazione in cui le linee di confine del nostro Paese siano dettate da una potenza straniera o da un’organizzazione internazionale. Nessuno primo ministro britannico, nessun governo, nessun parlamento potrebbe accettare una tale imposizione”.
Davanti alla prospettiva di una hard Brexit, i leader dell’industria automobilistica europea hanno unito le forze per chiedere all’Ue e al Regno Unito di garantire un ambizioso accordo di libero scambio. Senza si mettono “a rischio i posti di lavoro in un settore che sostiene 14,6 milioni di nuclei familiari“, scrivono. E i 110 miliardi di danni stimati si aggiungerebbero ai 100 miliardi dovuti allo choc del coronavirus. Inoltre “l’impatto catastrofico del mancato accordo”, con la conseguente introduzione delle tariffe stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio che verrebbero trasferite sui prezzi al consumo, minaccia la produzione tra Ue e Regno Unito di circa 3 milioni di auto e veicoli commerciali in cinque anni. Anche i fornitori sarebbero colpiti dalle tariffe, andando incontro a un aumento dei costi di produzione che porterà a maggiori importazioni di componenti da altri Paesi più competitivi. Pertanto, concludono le associazioni, un “ambizioso accordo di libero scambio Ue-Regno Unito, con disposizioni specifiche per il settore automobilistico, è fondamentale per il futuro successo dell’industria automobilistica europea”.