Quando quest’estate Donald Trump ha inviato le forze federali a Portland, “per sedare la rivolta”, Charles Fried ha fatto sentire la sua voce. Fried è un giurista della Harvard Law School, repubblicano, solicitor general (capo dell’Avvocatura generale che rappresenta il Governo federale davanti alla Corte suprema) con Ronald Reagan dal 1985 al 1989. Fried è anche un profugo. Nel 1939, a cinque anni, lasciò Praga, dov’era nato. I genitori, ebrei, fuggivano la persecuzione nazista. Nell’invio a Portland delle truppe del Department of Homeland Security, Fried ha rivisto un vecchio copione. “Avrebbero potuto indossare le camicie brune”, ha detto, segnalando che Trump e il suo attorney general William Barr potrebbero utilizzare “degli agenti provocatori, gente di estrema destra per infiltrare le manifestazioni di sinistra, in larga parte pacifiche. In questo modo, provocherebbero incidenti e giustificherebbero l’uso della forza”.
Fried non è il solo conservatore che in questi mesi lancia l’allarme. Ci sono i repubblicani del “Lincoln Project”, che ritengono che Trump sia un pericolo per la democrazia. Ci sono i “Republican Voters Against Trump”, che definiscono il presidente “pericoloso”. C’è addirittura l’ex chairman del partito repubblicano, Michael Steele, che ritiene che Trump sia pronto ad “aprire il vaso di Pandora degli inganni”, pur di restare alla Casa Bianca. Secondo Steele, il presidente starebbe seminando dubbi sul voto per posta, ed è molto probabile che “non accetterà il risultato delle elezioni”. Steele non considera Trump una reincarnazione dei dittatori fascisti del Novecento, ma piuttosto un “P.T. Barnum del 21esimo secolo, cui non frega niente della gente di Portland, cui frega soltanto di se stesso”. A conti fatti, la conclusione cui arriva Steele è però la stessa di altri conservatori. Trump potrebbe tentare un coup d’état a novembre, pur di restare al potere.
La definizione, “colpo di stato”, fa effetto, per un Paese di antica tradizione democratica come gli Stati Uniti – e in bocca a una serie di conservatori moderati e di solito molto attenti all’uso delle parole. Ma la presidenza di Donald Trump si è rivelata tutto tranne che moderata e “normale”, e anche la sua possibile uscita di scena, o rielezione, promettono di essere travagliate. Per vagliare tutti i possibili scenari post-elettorali, gente come Fried, Steele e altri vecchi repubblicani si sono messi insieme a una pattuglia di democratici e hanno creato il “Transition Integrity Project”. Il gruppo ha appena pubblicato un rapporto di 22 stringate paginette, dal titolo “Preventing a Disrupted Presidential Election and Transition” (qui il testo integrale), in cui si cerca di elencare tutti i rischi di queste elezioni. In particolare, lo scoppio di tumulti, l’uso della forza federale da parte di Trump, il suo non riconoscere il risultato.
Quelli del “Transition Integrity Project” partono da una constatazione. E cioè che quest’anno il concetto di “notte elettorale” non ha molto senso. Il ricorso probabile e massiccio al voto per posta, provocato dall’emergenza sanitaria, farà infatti sì che molti voti non potranno essere contati nelle ore immediatamente successive alla chiusura dei seggi. Prendiamo il caso della Pennsylvania, uno Stato dove nel 2016 Trump vinse contro Hillary Clinton per soli 44.292 voti e che resta oggi strenuamente conteso tra il presidente in carica e il rivale Joe Biden. La legge della Pennsylvania consente agli elettori di richiedere un voto per posta entro le ore 17 del 27 ottobre. I voti devono arrivare entro le ore 20 del 3 novembre, giorno ufficiale del voto. La Commissione Elettorale non può comunque iniziare il conteggio delle schede arrivate nelle settimane precedenti prima delle 7 del mattino dell’Election Day. Questo significa che migliaia e migliaia di voti per posta si accumuleranno negli uffici della Pennsylvania, e che il risultato nello Stato resterà con ogni probabilità in sospeso per ore e ore, se non per giorni.
La stessa cosa vale per altri Stati che saranno probabilmente decisivi. In Wisconsin, nel 2016, Trump vinse per 22.784 voti. In Michigan, per 10.704 voti. A meno di clamorose sorprese, il voto diretto, nell’urna elettorale, non risolverà nulla. Per assegnare i collegi elettorali, si dovrà attendere di scrutinare le schede per posta. È su questo lasso di tempo, che potrebbe durare dei giorni, se non delle settimane, che il rapporto del “Transition Integrity Project” si sofferma. L’amministrazione potrebbe infatti dislocare le truppe della Guardia nazionale nei seggi elettorali, con la scusa ufficiale di controllare le operazioni di voto. Del resto lo stesso Trump, nel giorno dell’accettazione della nomination da parte di Biden alla convention democratica, suggerì in un’intervista a Fox News che avrebbe potuto ordinare alle forze federali “e persino agli sceriffi” di entrare nei seggi per monitorare eventuali frodi (il tema della frode certa del voto per posta è stato rilanciato decine e decine di volte da Trump negli ultimi mesi – peraltro senza prove). L’invio delle truppe potrebbe provocare disordini in diverse città – uno scenario cui abbiamo già assistito durante l’estate appena trascorsa di tensioni razziali – dando al presidente ragioni ulteriori per non riconoscere il risultato in presenza di scontri di piazza.
Il rapporto ipotizza anche l’appello di Trump, via Twitter, alle milizie di estrema destra. Ipotizza l’apertura di una serie di controversie legali nei diversi Stati, ciò che potrebbe ritardare la transizione dei poteri e perfino il giorno dell’Inaugurazione, il 20 gennaio 2021. Il giudizio finale sul vincitore potrebbe arrivare fino alla Corte Suprema, così come successe nel 2000 (il caso Bush v. Gore); ma questa volte Trump non accetterebbe il verdetto della Corte. Anzi, potrebbe schierare a sua difesa i corpi dello Stato che gli sono più favorevoli – in particolare l’Immigration and Customs Enforcement e la Customs and Border Protection – pur di non essere allontanato dalla Casa Bianca. In tutti i modi, il risultato sarebbe lo stesso. Portare la Repubblica sull’orlo della dissoluzione. Mettere a rischio di distruzione la democrazia americana.
Si tratta di fantascienza? Possibile. Di scenari-limite che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi? Probabile. Eppure l’inquietudine in queste settimane cresce, tanto da aver portato a una lettera aperta al capo dell’esercito americano, il generale Mark Milley, da parte di due stimati veterani della guerra in Iraq, John Nagl e Paul Yingling. I due scrivono: “Se Donald Trump dovesse rifiutarsi di lasciare la Casa Bianca al termine del suo mandato costituzionale, l’esercito degli Stati Uniti dovrebbe rimuoverlo con la forza, e Lei dovrebbe dare l’ordine”. Si tratta, anche qui, di un’ipotesi lontana, che tra l’altro contraddice l’antica tradizione di non-intervento nelle vicende politiche dell’esercito Usa. Ma il fatto che l’ipotesi sia stata formulata è già, di per sé, significativo. Negli ultimi mesi si è peraltro allargata la rete di gruppi e associazioni che si dicono pronti a intervenire, con i mezzi della mobilitazione legale e politica di massa, nel caso di problemi post-voto. Si tratta di sigle come “Stand Up America”, “Public Citizen”, “Republicans for the Rule of Law”, “Indivisible Project”. Il loro obiettivo, come ha spiegato Ezra Levin, co-fondatore di “Indivisible Project”, è quello di portare milioni di persone per le strade d’America, nel caso Trump non riconoscesse l’esito del voto. Il modello, ha spiegato ancora Levin, è quello delle mobilitazioni a Hong Kong: milioni di persone in piazza, per giorni, in nome della democrazia. Come a dire. Il coup d’état è improbabile, ma vale la pena comunque di prepararsi.