Uno studio di The European House-Ambrosetti per Snam ipotizza che la Penisola possa diventare un "ponte" per il trasporto tra Nord Africa e resto d'Europa, oltre a utilizzarlo per i trasporti, l'industria e il riscaldamento. Con meno emissioni e 540mila nuovi posti di lavoro al 2050. Ma i punti di domanda sono tanti. Quanto durerà la transizione dall'idrogeno ottenuto da carbone o gas, molto più conveniente?
L’Italia futuro hub europeo e del Mediterraneo sul fronte dell’idrogeno. Obiettivo: portare in tutta Europa quello prodotto in Africa da fonti rinnovabili. E usarlo anche nella Penisola per i trasporti, l’industria pesante e il riscaldamento. Un piano che potrebbe in parte essere finanziato con i fondi del Next Generation Eu e oltre a ridurre le emissioni spingerebbe il pil e creerebbe 540mila nuovi posti di lavoro al 2050. “Il filone dell’idrogeno sarà fortemente valorizzato nel quadro del recovery plan italiano”, ha anticipato il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri lunedì, confermando che sarà al centro del piano per decarbonizzare l’ex Ilva. Ma i punti di domanda sono tanti. Quanto durerà la fase di transizione dall’idrogeno “grigio” ottenuto da carbone o gas a quello “verde” che sfrutta le rinnovabili? Detto in altri termini, quanto ci vorrà perché il secondo, oggi enormemente più costoso, diventi conveniente? E’ intorno a questo punto cruciale che si sta consumando una guerra tra le multinazionali del gas e quelle che stanno puntando su solare ed eolico.
Lo studio sulle prospettive al 2050 – Quello dell’Italia hub europeo è l’orizzonte immaginato nello studio H2 Italy 2050: una filiera nazionale dell’idrogeno per la crescita e la decarbonizzazione dell’Italia, realizzato da The European House-Ambrosetti per la società di infrastrutture energetiche Snam, legata oggi soprattutto alla fornitura di gas. Il piano, secondo gli analisti, si può realizzare sfruttando i vantaggi competitivi dell’Italia in alcuni settori, ma anche la posizione geografica e la rete gas già presente sul territorio e per il 70% già pronta al trasporto. Ma si tratta di un percorso che prevede diversi step e, almeno nella prima fase, punta sull’idrogeno grigio o blu ottenuto dal gas.
Un passo indietro: ad oggi, la produzione di idrogeno (che di per sé è un vettore e non una fonte energetica) è per il 99% caratterizzata dall’uso di fonti fossili tramite la gassificazione di carbone o il processo di steam reforming del gas naturale. Se a questo ‘idrogeno grigio’ abbiniamo tecnologie per catturare le emissioni di Co2, allora si arriva all’‘idrogeno blu’ (a basse emissioni di carbonio, generato però utilizzando fonti non rinnovabili, come gas naturale o nucleare). Nel piano che coinvolge Snam entrambi rappresentano una “soluzione ponte” verso la totale produzione di idrogeno verde, derivante dal processo di elettrolisi che sfrutta energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico).
Il potenziale dell’Italia – Lo studio analizza il potenziale dell’Italia: entro il 2050 l’idrogeno potrebbe arrivare a coprire il 23% della domanda energetica nazionale e contribuire al Pil per una cifra che va dai 22 ai 37 miliardi, portando 540mila nuovi posti di lavoro al 2050. Sfruttando l’infrastruttura esistente, l’Italia potrebbe importare l’idrogeno prodotto in Nord Africa attraverso l’energia solare a un costo del 10-15% inferiore rispetto alla produzione domestica “valorizzando la maggiore disponibilità di terreni per installazione di rinnovabili – spiegano gli analisti -, un elevato irraggiamento” e una minore variabilità stagionale. Per l’ad di Snam Marco Alverà l’Italia “si candida a hub naturale facendo da ponte infrastrutturale tra Europa e Nord Africa” anche in quanto “seconda nazione manifatturiera d’Europa” con un solido posizionamento in alcuni settori. L’Italia è primo produttore in Ue per le tecnologie termiche potenzialmente connesse alla filiera dell’idrogeno (con una quota di mercato del 24%) e secondo sia per le tecnologie meccaniche (siamo al 19,3%) sia per impianti e componenti adattabili alla produzione di idrogeno verde e blu, con una quota del 25%.
I vantaggi per la filiera e l’ambiente – Considerando il valore della produzione in Italia delle tecnologie afferenti alla filiera dell’idrogeno è stato stimato che, nei diversi scenari ipotizzati, si potrebbe attivare un valore della produzione compreso tra 4,5 e 7,5 miliardi al 2030 e tra 21 e 35 miliardi di euro al 2050. Con l’attivazione delle filiere di fornitura e subfornitura e l’effetto indotto sui consumi si arriva a un valore compreso tra 14 e 24 miliardi al 2030 e tra 64 e 111 miliardi al 2050. Il settore che più beneficerà dell’introduzione dell’idrogeno sarà quello dei trasporti: fra 30 anni dovrebbe totalizzare il 39% dell’intera domanda. “La miscela dell’idrogeno con il gas nelle reti di trasporto e distribuzione esistenti – si sottolinea – permetterà di ottenere una soluzione di immediata impiegabilità”. Secondo le stime l’Italia potrebbe ridurre le emissioni di 97,5 milioni di tonnellate di Co2, il 28% in meno rispetto alle emissioni registrate nel 2018.
Snam, dalla spina dorsale europea alla Cina – Chiaro il ruolo di Snam, che si muove su più fronti. A luglio scorso, insieme ad altri dieci operatori europei di infrastrutture e alla società di consulenza Guidehouse, ha presentato un piano per realizzare una rete per il trasporto dell’idrogeno formata da 6.800 chilometri di gasdotti che attraverserà Germania, Francia, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia e Svizzera. Una ‘spina dorsale europea dell’idrogeno’, composta per il 75% da gasdotti convertiti e per il 25% da nuove tratte, divisa in due reti parallele, una per l’idrogeno e l’altra per il biometano. Di fine agosto, invece, l’accordo firmato con PipeChina (China Oil and Gas Piping Network Corporation), per condurre sperimentazioni in Cina, dove l’azienda italiana è attiva da due anni.
Idrogeno verde, la variabile dei costi – Ma i vantaggi economici e ambientali stimati diverranno realtà solo se si verificheranno ad alcune condizioni. Intanto un calo del costo dell’idrogeno verde, legato alla disponibilità di energia da fonti rinnovabili. “Nel 2000 il prezzo dell’idrogeno da rinnovabili – ha spiegato Alverà – era quaranta volte superiore a quello del petrolio”. Nello studio Ambrosetti-Snam si stima che la produzione di idrogeno verde raggiungerà la parità di costo rispetto all’idrogeno grigio nel 2030. In un recente rapporto, gli analisti di Wood Mackenzie stimano invece che i costi del green potrebbero diminuire fino al 64% e uguagliare quelli dell’idrogeno derivato da combustibili fossili entro il 2040.
Strategie e investimenti – Altro fattore importante è legato agli investimenti. Lo studio è stato presentato nei giorni in cui in Italia l’attenzione è concentrata sul Recovery Plan e sulle proposte sull’idrogeno che riguardano attori principali, ma anche start up e piccole e medie imprese. A maggio la Commissione europea ha manifestato l’intenzione di raddoppiare i fondi destinati a ricerca e innovazione nell’ambito dell’idrogeno verde, da 650 milioni a 1,3 miliardi di euro. Nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec), l’idrogeno è stato sì incluso tra gli obiettivi al 2030, ma come contributore per appena l’1% al raggiungimento e solo del target di rinnovabili nei trasporti (21,6%). Una visione non a lungo termine. Nel programma della task force guidata da Vittorio Colao pubblicato a giugno viene invece sottolineata l’importanza di sostituire l’idrogeno grigio con quello verde. Una preoccupazione anche a livello europeo. Quando l’8 luglio scorso la Commissione Ue ha presentato il piano energetico in tre tappe ‘Hydrogen Strategy europea’, con l’obiettivo di installare almeno 40 GW di elettrolizzatori (che, tramite elettricità, dividono le molecole d’acqua in idrogeno e ossigeno) e produrre 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde entro il 2030, le ong hanno acceso i fari sul ‘periodo di transizione’ e sul sostegno anche alla produzione dell’idrogeno con gas e nucleare. Tra gli altri, il Wwf: “L’idrogeno non deve diventare un nome in codice per il gas”. Nel documento europeo, in effetti, si parla di un ruolo dell’idrogeno blu prodotto dal reforming del metano con cattura della CO2.
La guerra delle multinazionali – E proprio alla Commissione si sono rivolti due blocchi, spinti dai propri interessi a conquistare nuove fette di mercato o a non perdere le proprie. Da un lato Eni, Exxon e altre multinazionali del gas sostengono l’idrogeno Blu, che viene prodotto secondo il procedimento dell’idrogeno grigio, a cui viene associata la tecnologia del Carbon capture and storage. Si cattura l’anidride carbonica derivante dal processo produttivo dell’idrogeno, si trasporta solitamente in forma liquida e si inietta in siti di confinamento geologico dove dovrebbe essere contenuta per diversi anni. Spesso di tratta di vecchi giacimenti di idrocarburi. Per lo stoccaggio, Eni vuole utilizzare giacimenti a gas offshore esauriti del Medio Adriatico.
Per alcune di queste multinazionali l’idrogeno è l’occasione per puntare ad altri settori (come quello dei trasporti) proponendo un’alternativa all’elettrificazione basata sulle rinnovabili. Anche nello studio Snam si sottolinea che l’idrogeno, a costi più bassi, potrebbe essere impiegato soprattutto nei settori che ancora oggi contribuiscono maggiormente alle emissioni, dall’industria pesante (chimica e siderurgica) al trasporto pesante e a lunga percorrenza (veicoli commerciali pesanti e bus), dal trasporto ferroviario non elettrificato fino al residenziale, per il quale vengono esaminati vari tipi di impieghi, in particolare nel riscaldamento.
Enel e altre aziende non sono rimaste a guardare: anche loro si sono rivolte alla Commissione, spingendo però per l’elettrificazione e una strategia europea basata esclusivamente sull’idrogeno verde. Proprio di recente, l’amministratore delegato di Enel Italia, Carlo Tamburi, illustrando (in audizione alla Camera su Recovery Fund) i piani di transizione energetica sulla quale sta lavorando la società, ha detto: “Creeremo energia da rinnovabili e daremo energia da idrogeno all’Ilva di Taranto”. Enel, inoltre, sta lavorando per creare centrali ibride composte da impianti rinnovabili (solari ed eolici) abbinati a elettrolizzatori, per produrre idrogeno green, da vendere a clienti per la decarbonizzazione dei propri processi. E si punta a installare gli elettrolizzatori in impianti fotovoltaici ed eolici già esistenti, in Cile, Stati Uniti e Spagna, dove c’è un vasto potenziale rinnovabile e condizioni normative favorevoli. La guerra è appena iniziata.