Maurizio Mosca si alza di scatto. Poi cammina nervoso fino al centro dello studio, si piega verso sinistra, porta le mani sopra la testa come una ballerina di danza classica. Perché Pasquale Squitieri lo ha appena insultato in diretta. E lui non ha nessuna intenzione di lasciar correre. “No, io voglio una precisazione – urla mentre il primo piano della telecamera gli ingigantisce il volto – Lui mi ha detto, anche simpaticamente, leghista di merda. Io ho rispetto per tutti. Però giuro che non sono leghista. E tanto meno di merda“. È il tripudio. Qualcuno fra il pubblico fischia, altri si mettono a ridere, tutti battono le mani. Subito sotto il maxi schermo il conduttore usa tutto il fiato che ha in corpo per sottolineare il momento con un paio di “Bravo!”.
È una delle scene più grottesche della televisione italiana. Ma è destinata a diventare un cult. E non solo per quelle 18 parolacce pronunciate in tre minuti, praticamente una ogni dieci secondi. Perché quella rissa verbale fra Squitieri, Mosca e Sgarbi, è un piccolo compendio del Processo di Biscardi, il programma che più di tutti ha forgiato la narrazione calcistica di un Paese intero e che oggi compie quarant’anni. Tutto nasce da un paradosso. L’Italia è una nazione dove tutti si sentono commissari tecnici ma dove nessuno ha voglia di parlare di tattica. Meglio i campanilismi, le accuse, le chiacchiere da bar, i sogni irrealizzabili travestiti da affari imminenti. Le opinioni sono più interessanti dei fatti. A patto che vengano esposte, criticate e difese utilizzando un eccesso di decibel.
Aldo Biscardi è stato il primo a intercettare questa tendenza, a elevarla a sistema, a renderla la pietra sulla quale costruire un nuovo modo di fare televisione. E ha funzionato. Per decenni il Processo ha fatto produrre ettolitri di bile ai massmediologi e ha affascinato lo spettatore medio. Qualche critico ha scritto che chi andava ospite da Biscardi precipitava in uno stato confusionale, perdeva momentaneamente il corretto uso dell’italiano. Eppure in quella finta aula di tribunale si sono accomodati anche Zeffirelli e Carmelo Bene. Al tecnico viene preferito l’opinionista, così tutti si possono sentire autorizzati a entrare nel dibattito. Possibilmente a gamba tesa, anche senza competenze specifiche.
Un teatrino sboccato e allegro che coinvolgeva non solo giornalisti, ma anche attori, registi, politici. Il Processo come vetrina, come luogo perfetto per comunicare un’immagine di sé meno abbottonata, meno imbalsamata, lontana dalla serietà istituzionale. E quindi accattivarsi anche qualche simpatia. D’Alema, Andreotti, Di Pietro, Berlusconi, sono solo alcuni dei politici che hanno accettato volentieri di passare dalla poltrona alla poltroncina televisiva.
Quello del processo diviene il salotto più divisivo d’Italia. C’è chi lo critica e chi lo applaude. O bianco o nero. Senza sfumature. Fra i suoi oppositori c’è anche Bearzot, che parla apertamente dei rischi del “Biscardismo”. Il giornalista risponde nel corso di un’intervista a Repubblica, che diventa l’occasione per spiegare la sua filosofia: “Detesto la tv di plastica, l’ospite che recita, il teatrino che addormenta – dice -Ecco, il Processo ha superato tutto questo. Ha rotto l’abitudine alla velina, ai commenti paludati dove il potente ha sempre ragione. In quindici anni ho dato fastidio, ecco perché mi attaccano. Il Biscardismo è la fine dello sport che ha sempre ragione. È il dito nella piaga. Anche urlando. Anche esagerando“.
Nel 1979 Aldo Biscardi è il responsabile dei programmi sportivi della terza rete. Così inizia a pensare a qualcosa di diverso. L’idea prende forma a casa di Biagio Agnes, allora direttore della Rai. “La trasmissione nasce da una domanda precisa che mi sono fatto – spiegherà anni dopo Biscardi – ossia: che cazzo ci faccio con ’sto giornalismo qua, io che sono abituato al giornalismo vero, passionale?”. L’idea per il nome arriva da Gianni Rodari. Lo scrittore firma la prefazione della Storia del Giornalismo Sportivo di Biscardi. E scrive che Aldo “parla di calcio come in un processo”. Sembra perfetto. Si può andare in onda.
La prima puntata viene trasmessa il 15 settembre 1980. Ma a condurla è Enrico Ameri. Biscardi resta dietro le quinte. Tira i fili, si occupa anche della regia. Ma quel ruolo gli sta stretto. Dal 1983 fa il passo avanti, la bassa risoluzione del tubo catodico proietta nel salotto degli italiani quella sua capigliatura rossa che in poco tempo diventa iconica. Il Processo si trasforma una trasmissione a sua immagine e somiglianza. L’accento molisano diventa un tratto distintivo, gli inciampi grammaticali un marchio di fabbrica. Biscardi crea un nuovo linguaggio, spesso strampalato ma efficace.
E i suoi svarioni vengono ripetuti fino a quando non diventano tormentoni: “Al Processo le polemiche fioccano come nespole“, “Dove giocherà Baggio l’anno scorso?”, “Non ci sarà più un duello a due“. E ancora: “Alla gente interessa del mandorlone, parliamo di doping“, “Per favore, parlate solo due o tre alla volta“. Ogni servizio del Processo viene definito un’esclusiva, ogni notizia uno sgub. Anche quando non lo è. Le frasi sono iperboli che sconfinano nel surreale: “A nome di tutta l’umanità chiediamo che venga catturato, magari anche durante Il Processo, quell’assassino di Bid Ladden”, “Il moviolone me l’ha chiesto pure il Vaticano per l’attentato al Papa“.
Nel maggio del 1993 va in onda un’altra scena cult. Silvio Berlusconi è indispettito per come il Processo del lunedì sta trattando le sue deposizioni spontanee rese al giudice durante l’indagine sull’applicazione della legge Mammì. Così decide di chiamare in trasmissione. Il Cavaliere ci va giù durissimo: “Non rispetto chi dice falsità“, tuona. “Evidentemente per lei il pluralismo è un opzional“, ribatte Biscardi. Qualche giorno dopo arriva il secondo round. In un’intervista Aldo annuncia: “Ci siamo sentiti due giorni dopo, i nostri rapporti sono tornati quelli di prima”. Ma Berlusconi non ci sta e rilascia un comunicato: “Non ho mai avuto nessun contatto, neppure telefonico con Aldo Biscardi… Non ho modificato il giudizio espresso sulla trasmissione”.È il teatro dell’assurdo. Ma è anche l’inizio di un rapporto particolare. Qualche anno più tardi Berlusconi chiama ancora in studio. E stavolta per un grande annuncio: “Do a te, data l’antica amicizia, una notizia che farà contenti tutti i tifosi del Milan: Kakà rimane al Milan“. Crudeli, paonazzo in viso, sbraita, strilla, esulta. Tanto che gli devono chiudere l’audio.
Nel 1999 gli arbitri querelano Biscardi per le polemiche eccessive sul loro operato. Quasi un anno più tardi arriva l’archiviazione, firmata dal pm Giuseppe Amato, sostituto procuratore al tribunale di Roma. La sentenza parla chiaro: “Trattasi di un programma televisivo il cui oggetto principale è proprio quello di suscitare con linguaggio diretto ed espressioni volutamente forti discussioni, spesso pretestuose, tipiche da bar sport“. E ancora: “La credibilità oggettiva delle notizie riportate e fatte oggetto di dibattito è riconosciuta come assai bassa, secondo l’opinione comune, trattandosi non infrequentemente di notizie create o gonfiate per suscitare la polemica”.
È un colpo che non annacqua il successo del Processo. Biscardi porterà avanti ancora due battaglie. Una per Baggio al Mondiale. L’altra per la moviola in campo. Il destino ha in serbo uno scherzo di cattivo gusto: Aldo morirà nell’anno in cui viene introdotto il Var. Avrà il tempo di commentare: “Ho vinto io“. La sua scomparsa si porta dietro la sua riabilitazione. A Biscardi viene riconosciuto il ruolo di innovatore. E quel calcio un po’ cialtrone e un po’ ingenuo ora viene visto con nostalgia.