Attorno alle scelte referendarie del 20 e 21 prossimi (confermare o meno la riduzione dei parlamentari da 945 a 600) cresce una concitazione tipo tifosi da stadio; alimentata da una campagna sovreccitata per il “No”, da ultima spiaggia o da “arrivano i barbari”. Lo sa bene anche questo blog, dove le mie valutazioni a favore del “Sì” sono state accolte da una gragnuola di palle nere e commenti insultanti: “servo di Marco Travaglio” (con cui non parlo da svariati anni), “radical chic” (niente di meglio della battuta irridente del milieu snob newyorchese, vecchia di un mezzo secolo, attribuita al giornalista Tom Wolfe?).
Certo, le argomentazioni ufficiali a sostegno del provvedimento sono risibili: una ipotetica maggiore efficienza che scatterebbe al di sotto del numero magico 600, che portata alle estreme conseguenze potrebbe far concludere che la terapia ottimale è quella di azzerare le Camere (così non si perde tempo a discutere…); un risparmio insignificante rispetto alla montagna di sprechi della nostra vita pubblica, quando ben maggiori sarebbero i vantaggi che si otterrebbero imponendovi il criterio della gratuità (il politico come bricoleur; e al diavolo se solo i molti abbienti potrebbero permettersi un tale impegno di servizio…).
Ancora maggiori sono le opinabilità degli esercizi argomentativi pro rigetto del provvedimento in questione. A prescindere dalla paternità attribuita ai fastidiosi e/o deludenti Cinque Stelle, alla ricerca di un appiglio per salvarsi dalla caduta libera a cui la loro pretenziosa insipienza li condanna.
Ma se non è solo una questione di insofferenza nei confronti di apprendisti stregoni, l’appello alla sacralità delle istituzioni rivela quanto la cultura politica diffusa nel nostro Paese sia intrisa di fideismo para-religioso e si smarrisca in una selva di specchi deformanti, dove i miraggi vengono scambiati per realtà. Altrimenti si comprenderebbe che le istituzioni – intese come tabernacolo dei valori e motore automatico che innesta le contro-marce salvifiche della qualità democratica -, per la cui difesa si sarebbe pronti a scendere in battaglia, in effetti non esistono. Sono solo stanze mobili, popolate da uomini e donne che ne determinano i movimenti sulla base dei propri convincimenti.
Poi arrivano le esecrazioni apocalittiche: populisti! (ossia critici delle politiche anti-popolari che imperversano da alcuni decenni?), antipolitica! (ma negazione della politica non sono le pratiche affaristiche/carrieristiche del personale politico?). Una retorica emotiva in cui si distinguono le odierne “Sardine”; questa metafora ittica di cui possiamo dire quanto fu attribuito a una specie di insetti – le cicale – trasformata in metafora nella favola di La Fontaine: “Hanno ballato una sola stagione”.
Nel caso di Mattia Santori e compagni, la campagna regionale emiliana. Tipetti che intonano “Bella ciao” per poi correre a baciare la pantofola a gente come i Benetton. Che così facendo ci forniscono la chiave del retro-pensiero (spesso inconscio) di molti propugnatori del “No”: la difesa dell’establishment come presunta salvaguardia della democrazia. Senza rendersi conto che ormai siamo in piena Post-Democrazia.
Arrivo così al punto che mi sta a cuore: la questione posta dal quesito referendario ha tutti i crismi di un errore inintenzionale della politica ufficiale. Ossia quel ceto, omologato al proprio interno e auto-referenziale, che ha trasformato il gioco della rappresentanza in una gara tra marchi e le elezioni in ascensore per carriere individuali. Ma che ora si è messo da solo nella posizione di bersaglio del risentimento popolare (se non sarà deviato dal coro propagandistico al diapason: da Sgarbi, Formigoni fino alle grandi testate).
Questo esercito di occupazione, che espropria il dibattito pubblico del diritto alla libera decisione sulle scelte collettive, ha maturato un’evidente sensazione di intoccabilità. Che ora abbiamo l’opportunità di scalfire decimandone le file. Può essere una lezione per ripensare le logiche anti-democratiche/post-democratiche; o un primo successo nella guerra civile tra outsider e privilegiati, che sinora questi ultimi stavano vincendo. Con il contributo prezioso e non disinteressato del clero di partito.