Adele Chiello, madre di Giuseppe Tusa, uno dei 9 morti per l'impatto con il Jolly Nero nel porto di Genova, parla dopo le 7 condanne, compresa quella dell'ammiraglio Angrisano, nel processo sulla pericolosità della torre: "Mi dicevano che ero matta. Non andranno in carcere? Non cerco vendetta, ma la verità. Perché sia da monito per tutti i furbetti d'Italia"
“Avevo ragione io, avvocato”. Il primo round della battaglia di Adele Chiello, mamma di Giuseppe Tusa, è finito martedì mattina dentro l’aula allestita nei magazzini del Cotone di Genova, di fronte al comando della Capitaneria di porto, il cui ex comandante era al banco degli imputati. L’ammiraglio Felicio Angrisano è stato condannato a 3 anni per omicidio colposo, il tribunale ha emesso altre sei sentenze di colpevolezza e cinque assoluzioni. Il processo bis sul crollo della Torre Piloti del porto di Genova, collassata a causa dell’impatto con il cargo Jolly Nero il 7 maggio 2013 inghiottendo 9 persone, è in larga parte merito della tenacia di Adele. Fu lei ad opporsi alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura e ieri, dopo la lettura del dispositivo da parte del giudice Paolo Lepri, ha guardato la sua avvocatessa, Alessandra Guarini, e ha esclamato quelle quattro parole che racchiudono sette anni vissuti a rincorrere la verità. La Torre Piloti, costruita a filo banchina, non doveva essere lì ed era pericolosa per chi, come suo figlio Giuseppe, lavorava all’interno.
Quattro anni fa raccontò al Fatto.it che aveva paura che tutto finisse come a Ustica. Ora giustizia è fatta per suo figlio e i suoi colleghi.
No, i morti non hanno bisogno di nulla. La sentenza è soprattutto per i vivi. Se passa un messaggio di impunità, le stragi sul lavoro ci saranno di nuovo. Il pronunciamento del giudice ci dice che i datori e i vertici, del pubblico e del privato, dovranno tenere in conto la sicurezza. Invece finora hanno sempre pensato al risparmio. È successo con i treni, come a Viareggio, con le navi, i ponti e le scuole. Accade perché chi comanda è il motore dell’economia e quindi spesso la politica fa finta di non vedere, permettendo di sfregiare le norme sulla sicurezza. Non deve succedere più. E lo ripeterò sempre, senza paura.
Dopo 7 anni, la parola fine è ancora lontana e, vista la durezza delle condanne, è possibile che le eventuali pene definitive restino sulla carta. Questo la addolora?
Non mi interessano gli anni di condanna né il carcere. Mi serve l’accertamento delle responsabilità in un’aula giudiziaria. E che le sentenze siano un monito per tutti i furbetti d’Italia.
Senza la sua opposizione alla richiesta di archiviazione il processo sulla costruzione della Torre Piloti e la sua sicurezza non sarebbe mai iniziato.
Studio da 7 anni, tutti i giorni, per dare voce a mio figlio e agli altri morti. Senza di noi, le vittime non esistono nel processo. Sono partita da zero, non sapevo neanche accendere un computer. Andavo nelle redazioni locali dei quotidiani a chiedere vecchi articoli che parlavano dei lavori nel porto di Genova. Ho cristallizzato dei fatti, altrimenti non mi avrebbero considerata nonostante abbia sempre detto la verità. E mi davano della pazza, compreso l’ammiraglio Angrisano, il quale mi disse che ero “devastata”. Invece avevo ragione io. Ma mi permetta di aggiungere una cosa…
Prego.
Non ce l’ho con tutto il corpo della Capitaneria di Porto. Sotto le divise ci sono le persone e in questi anni ho imparato che aveva ragione Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta: alcuni sono uomini, altri dei quaquaraquà.
Ce li racconti questi sette anni.
Sono stati lunghi e dolorosi a causa dei muri di gomma che ho incontrato. Dai verbali dei soccorsi all’autopsia, ho incrociato molte omissioni e imparato che con la diplomazia non si ottiene nulla. Ho letteralmente dovuto sbattere i pugni sulle scrivanie per arrivare alla verità.
La sentenza chiude un cerchio su quelle che lei ritiene le responsabilità?
Non è finita, restano aperti i capitoli che riguardano le certificazioni del Rina e i soccorsi. Giuseppe venne dichiarato disperso, ma uno dei feriti disse subito che i colleghi erano dentro l’ascensore e si lamentavano. Ritengo che non sia stato fatto tutto il possibile per salvarli. Quella notte si pensò prima al porto. Non venni neanche avvisata di quanto era accaduto e mia figlia lo ha appreso da amici e dalla televisione.
Quella che ha portato avanti è stata una battaglia solitaria?
Non del tutto. Ho incrociato un giudice coraggioso, avvocati capaci di ascoltare e anche il mondo dell’informazione ha contribuito ad arrivare alla verità.
Martedì accanto a lei c’erano anche i familiari delle vittime della strage di Viareggio. State facendo rete.
Dal Mondo che vorrei di Viareggio alla mamma di Alessandro Nasta, nocchiere morto in addestramento sul veliero Amerigo Vespucci, siamo ormai consapevoli che l’unione fa la forza. Ognuno di noi è un valore aggiunto nel mettere insieme le voci per dire “basta impunità”. Il 3 ottobre avremo un convegno a Longarone, il paese distrutto dal crollo della diga del Vajont, con avvocati e magistrati. Vogliamo iniziare un percorso per inquadrare diversamente le responsabilità penali legate alle morti sul lavoro e alla mancanza di sicurezza. Lo dobbiamo ai nostri giovani.