di Carmelo Zaccaria

Qualche giorno fa il sindaco di un piccolo paese del Nuorese ha emanato un’ordinanza in cui vieta l’utilizzo dei “gruppi mamme” su Whatsapp e altri social di messaggistica, per evitare che “la schizofrenia delle mamme” con i loro pettegolezzi ed eccessi verbali, in concomitanza con l’apertura delle scuole, contribuiscano ad alimentare un clima di confusione e di allarmismo, resi già pesanti dall’emergenza sanitaria, finendo per riflettersi negativamente anche sul personale docente e non docente.

Si è parlato ovviamente di un’ordinanza scherzosa e provocatoria anche se, nelle intenzioni del sindaco, doveva servire a riportare un po’ di buon senso “tra le comari del paesino”, facendo notare come le comunicazioni on line, anche quelle più innocenti e inoffensive, alterano i canoni classici delle relazioni interpersonali, tanto da risultare artificiose e, al tempo stesso, ingannevoli.

Senza contatto visivo, infatti, non si riesce a valutare appieno la reazione emotiva dell’interlocutore, a dare il giusto peso alle sue parole e, di conseguenza, si rischia di innescare una catena di malintesi e malumori incontrollabili e dannosi per la salute mentale dei partecipanti ai gruppi e delle loro famiglie.

Il chiacchiericcio digitale, insomma, nuoce alla comunità nel suo insieme, coinvolgendo in questa isteria collettiva proprio i soggetti più deboli e indifesi, cioè i bambini. Non si presta mai abbastanza attenzione ai possibili disturbi che può provocare sull’ingranaggio psichico dei propri figli la consuetudine di tirarli in ballo, di trascinarli allo scoperto con una disinvoltura disarmante.

La giustificazione che spinge gli adulti a mettere in piazza incautamente i dettagli più riservati e vividi della loro crescita, oltre a quello di mendicare per se stessi un appagamento benevolo in forma di like, è l’illusione che all’interno del gruppo ci siano solo persone affidabili, amici veri e discreti, di cui si è certi che mai potrebbero divulgare a loro volta i contenuti delle chat senza chiederne il permesso. Si è spinti ad amplificare un’emozione che si pensa di poter trasferire, come d’incanto, all’immensa platea digitale.

Tuttavia l’emozione trasmigrata sul web inevitabilmente tende ad offuscarsi, a perdere consistenza, a sfumare spesso nel compatimento, se non nell’indifferenza. Ora impazza il fenomeno dello sharenting, cioè la condivisione ossessiva tra familiari di immagini e clip dei loro piccoli, ritratti, senza alcun riserbo, in ogni attimo della loro vita. Quando scopriamo una nostra vecchia foto, magari in bianco e nero, che ci ritrae seduti su un cavalluccio a dondolo o su un seggiolone con le labbra sporche di sugo, la guardiamo sempre con circospezione e con qualche disagio.

A distanza di tempo quella figura ci sembra una caricatura di noi stessi. A volte ci ridiamo sopra, ma a volte ci sentiamo così imbarazzati che ci viene voglia di strapparla, di sbarazzarcene al più presto. Eppure si tratta di una singola foto di stampa che rimane custodita in un cassetto o dentro una cornice, mentre le immagini digitali vanno per la loro strada, hanno una vita propria, girano su una ribalta planetaria a tempo indeterminato, non sono possibili ripensamenti né tanto meno si possono neutralizzare i suoi effetti distorsivi.

I bambini, diventando persone adulte, avranno il diritto di considerare come la loro infanzia sia stata tutelata e rispettata. Dovremmo essere abbastanza sicuri che un domani non subiranno alcuna conseguenza destabilizzante da tutta questa prolificazione mediatica, chiedendoci conto della nostra scarsa sensibilità di genitori nel custodire la loro intimità da sguardi indiscreti.

Proprio accostando la loro vita ad un perenne book fotografico li spingiamo ad orientarsi sin da piccoli verso una forma insidiosa di dipendenza segnata da un protagonismo euforico e velleitario, facendo supporre che l’apparire e il posare per l’obiettivo siano la direzione esclusiva da imprimere al percorso di formazione della loro personalità.

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