Ritenuta estinta dal 1968, la piccola rana brasiliana Megaelosia bocainensis sembra essere riapparsa. Dopo oltre cinquant’anni, è stata rivista nel suo ristretto areale originario: il parco nazionale Serra da Bocaina, nello Stato di San Paolo. In realtà, il gruppo internazionale di scienziati non l’ha vista per davvero e continua a conoscerla fisicamente per quell’unico reperto del museo datato 1968. Ma la sua presenza nella foresta pluviale è stata confermata grazie a tecniche molecolari innovative che hanno rintracciato il suo Dna disperso nell’ambiente, il cosiddetto “Dna ambientale” (o eDna, come environmental dna).
“Il Dna ambientale consiste in tracce del Dna effettivo di un organismo – spiega Elena Valsecchi a ilfattoquotidiano.it, docente di zoologia ed esperta di eDNA dell’Università Milano-Bicocca – disperso nel suolo, nell’acqua o nell’aria il Dna proveniente da pelle, secrezioni, escrementi si frantuma in piccolissime parti a causa di agenti atmosferici, chimici e biotici”. Tuttavia questi frammenti sono uno strumento prezioso per i biologi. Infatti, “bastano piccole molecole, quindi brevi sequenze genetiche, per riconoscere una specie”.
I ricercatori nel cuore del Brasile sono andati a caccia di Dna ambientale in sei precise aree di studio: cinque all’interno delle foreste atlantiche costiere e una nel cerrado: la grande savana brasiliana. Nella lista dei “ricercati” non c’era soltanto la rana Megaelosia bocainensis bensì un elenco di trenta anfibi classificati come in pericolo. Nello specifico: tredici rane ritenute estinte, dodici scomparse nelle zone di studio ma ancora presenti in aree vicine e, infine, cinque note nelle zone di studio ma considerate rare.
“Con delle pompe e filtri idonei a trattenere il Dna, i ricercatori in Brasile hanno processato grossi volumi d’acqua corrente e di stagno”, racconta Valsecchi, “se è vero che prelevare dell’acqua è un’operazione facile, l’analisi del Dna ambientale è invece un’operazione complessa”. In università sono poi cominciate le fasi di riconoscimento. “Dopo il sequenziamento del Dna rintracciato da tutte le sei aree di campionamento, hanno dapprima escluso tutto il Dna che non interessava, ovvero quello riconducibile a esseri umani, maiali, polli e altri organismi” chiarisce la professoressa, “per poi passare a distinguere le singole specie di rana, tra tutto il materiale genetico ascrivibile agli anfibi”.
I risultati per i ricercatori sono stati interessanti: si sono trovate tracce per quattro specie tra quelle indicate come presenti ma rare (Hylodes ornatus, Hylodes regius, Crossodactylus timbuhy, Vitreorana eurygnatha) ma soprattutto si sono rilevate due tra quelle ritenute localmente scomparse (Phasmahyla exilis, Phasmahyla guttata) e una tra quelle considerate estinte, la Megaelosia bocainensis, per l’appunto. Risultati che hanno meritato la pubblicazione sulla rivista Molecolar Ecology dal titolo “Lost and Found: Frogs in a Biodiversity Hotspot Rediscovered with Environmental Dna”.
Gli scienziati della pubblicazione fanno sapere che l’eDna anche se non consente di capire la quantità degli individui o se siano sani, rappresenta una tecnica rivoluzionaria per la conservazione della natura. Se eravamo abituati ad analizzare tracce macroscopiche, come impronte o ciuffi di peli, oggi è da quelle invisibili microscopiche che si raccolgono informazioni. In particolare, “grazie a questa metodologia possiamo studiare le specie elusive, rare o di cui s’ipotizza l’estinzione”, aggiunge Valsecchi. Tra le mani abbiamo uno “strumento potentissimo di analisi, capace di ottenere un’incredibile quantità di dati anche da un singolo campione”.
Però, per utilizzarlo al meglio, si devono superare alcune “nostre grandi criticità”, precisa la professoressa, “spesso non conosciamo la sequenza del Dna delle specie che vogliamo studiare”, oppure, in ambenti inesplorati, come le foreste pluviali o gli abissi, c’è “un grosso numero di specie non ancora descritte delle quali non solo non si conosce la sequenza del Dna, ma neanche le sembianze”, quindi conclude Valsecchi, “superare questi ostacoli è la vera sfida per l’ecologia molecolare dei prossimi anni”.