Nata a Pola, in Istria, fu prima partigiana e poi responsabile del settore cultura nel PCI. Divenne simbolo dell’emancipazione e dell’autonomia femminile rispetto alle convenzioni sociali e conformiste della politica italiana. Fondatrice de Il Manifesto, condannò l’invasione sovietica di Praga nel 1968, paragonò il linguaggio delle Br a quello dei comunisti degli Anni Cinquanta e non fu tenera con il cambio del nome del partito voluto da Occhetto nel 1989
Addio “ragazza del secolo scorso”. Rossana Rossanda è morta la notte scorsa a Roma. Aveva 96 anni. Lo ha annunciato in un tweet la direttrice de Il Manifesto, quotidiano che Rossanda fondò, 51 anni fa, assieme a Luigi Pintor, Lucio Magri e Valentino Parlato. Figura centrale della coraggiosa e ribelle eresia anti (partito) comunista tra il 1968 e il 1969, che si materializzò in un giornale di “sinistra”, la donna che Togliatti volle responsabile del settore cultura nel PCI nel dopoguerra diventò, nel ribollire della protesta anni ’60-’70, il simbolo dell’emancipazione e dell’autonomia femminile rispetto alle convenzioni sociali e conformiste della politica italiana.
Comunista sempre, ma fortemente e irriducibilmente critica rispetto allo “stalinismo” del partito, Rossanda era nata nel 1924 a Pola in Istria, ma visse l’adolescenza a Milano dove studiò e si laureò in filosofia, fino a quando, scoppiata la guerra divenne partigiana. Al Partito Comunista Italiano si iscrisse dopo il 1945 e in breve tempo raggiunse posti di rilievo in quel partito irrigidito dalla guerra fredda e dalla contrapposizione esacerbata che ne conseguì nei Paesi cerniera europei come l’Italia. Più che la fiducia per Mosca, Rossanda aveva fiducia in un mondo migliore, egualitario, democratico, con lo Stato ad aiutare i più deboli e i meno fortunati. Anche per questo il suo spirito che oggi definiremmo “libertario” la portò a compiere uno dei gesti politici, culturali e addirittura editoriali, più ribelli che la storia italiana ricordi.
Combattuta, addolorata, arrabbiata, quando condannò l’invasione sovietica di Praga nel 1968, dalla corrente di Ingrao alla quale apparteneva, si mise per traverso a un già frusto comunismo dogmatico e nel 1969 venne espulsa dal PCI. Come spiegò spesso, fu lei a rimanere “comunista” perché quel partito così fuso al concetto di “socialismo reale” lo era sempre meno. Una voce dissenziente e risoluta che si trasformò in novità editoriale con la nascita de Il Manifesto del quale divenne anche direttrice per ben tre volte negli Anni settanta. Un’operazione politica che ebbe anche una sua propaggine elettorale con la fondazione di un partito omonimo che nel 1972 ottenne lo 0,8% dei voti e nel giro di un paio d’anni evaporò tra le tante sigle a sinistra del PCI, tra cui si salvò soltanto Democrazia proletaria.
Nel marzo del ’78, in pieno sequestro Moro, Rossanda pubblicò su IlManifesto un discusso e critico editoriale dove paragonò il linguaggio zdanoviano dei comunisti anni ’50 a quello delle Brigate Rosse – il celebre “album di famiglia” – facendo andare su tutte le furie la allora corrente migliorista, e non solo, dei Macaluso e Napolitano. Rossanda non fu tenera nemmeno con il cambiamento del nome al partitone post 1989 voluto dall’allora segretario Achille Occhetto e quasi in solitudine si ritirò anche da Il Manifesto nel 2012 per una mancanza di dialogo sul nuovo dogma socialdemocratico “europeista”, che tra le forze di sinistra europee ha sostituito da almeno vent’anni ogni idealità di trasformazione sociale egualitarista, per poi dedicarsi maggiormente alla scrittura. In uno splendido autoritratto, La ragazza del secolo scorso (2005, Einaudi), spiegò: “Io sono del ‘900 e lo difendo. È stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra”.
Recentemente durante un’intervista a Propaganda Live sintetizzò in poche parole una distinzione lessicale e politica dell’uso del termine “compagno” – il saluto utilizzato dagli appartenenti al PCI, ma anche successivamente in Rifondazione Comunista – facendo capire soprattutto alle giovani generazioni l’origine di un’idea di collettività e condivisione di lotta oramai tramontate: “Certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. È una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. È qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare”.