Li abbiamo visti seduti in cerchio a parlare in maniera informale fra di loro nei locali della Cancelleria tedesca. C’erano Macron, Al Sisi, Putin, Merkel e il nostro premier Conte. Era il 19 gennaio del 2020 e la foto che ha catturato questa scena è stata scattata durante la Conferenza sulla Libia che si è tenuta a Berlino. Alcuni dei rappresentanti delle più grandi potenze mondiali coinvolte direttamente e indirettamente nel conflitto libico, si erano dati appuntamento per discutere del futuro della Libia, senza però, i veri protagonisti del conflitto: i libici. D’altronde, l’obiettivo ufficiale della Conferenza era proprio quello di porre fine all’ingerenza straniera nel conflitto. Da quell’incontro è emerso l’impegno formale degli Stati coinvolti a rispettare e attuare pienamente l’embargo sulle armi in Libia, istituito da diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Si era capito che l’unico modo per far cessare il conflitto in quel Paese era bloccare il flusso di armi che arrivava in Libia e che alimentava non solo le parti in conflitto ma anche i gruppi terroristici che si aggirano in quella zona. Da questo impegno è nata l’operazione militare dell’Unione Europea EUNAVFOR MED “Irini”, a guida italiana ed entrata in azione lo scorso marzo per contrastare il traffico di armi, petrolio e esseri umani in Libia. A distanza di sette mesi dall’inizio delle attività e nonostante i buoni propositi, “Irini” non sembra funzionare come previsto.
“Due i punti deboli della missione: attuazione e difficoltà di allargare il monitoraggio alle frontiere terrestri”, dice Claudio Bertolotti, analista e direttore di START InSight, nella sua ultima analisi pubblicata per il Centro militare di studi strategici (CeMiSS). Già, perché la missione che prevede, tra le altre cose, ispezioni di navi sospette in alto mare al largo della costa libica, si limita a garantire il rispetto dell’embargo sulle armi soltanto nelle rotte marittime, quelle cioè utilizzate da Ankara per il rifornimento militare di Tripoli. In questo modo, chi utilizza le rotte aree e quelle terrestri per il traffico di armi, può continuare indisturbato a inviare materiale bellico in territorio libico.
Questo particolare ha creato non pochi malumori fra gli attori internazionali coinvolti nel conflitto. Uno fra tutti, il premier turco Recep Tayyip Erdoğan il quale, con riferimento all’operazione, ha parlato di “faziosità e unilateralità a favore del generale Khalifa Haftar”, sostenuto da Egitto, Russia ed Emirati Arabi. Lo stesso premier turco non ha mancato di dimostrare platealmente la propria disapprovazione nei confronti di “Irini” attraverso dei veri e propri atti di boicottaggio, come nel caso della fregata greca “Spetsai”, una delle navi impiegate nell’operazione, impegnata nell’ispezione del mercantile “Cirkin”, partito dalla Turchia e sospettato di trasportare armi a Tripoli. Dopo diverse schermaglie fra lo “Spetsai” e due unità navali turche che scortavano la “Cirkin”, la fregata greca è stata poi costretta a battere in ritirata a seguito dell’azione turca di “inquadramento radar”, operazione che precede la minaccia di apertura del fuoco.
A complicare le cose, ci sono anche le dispute tra Grecia, impegnata operativamente nella missione Irini, e Turchia, paesi che dovrebbero collaborare alla stabilizzazione della Libia e che invece litigano sullo sfruttamento delle risorse di gas nel Mediterraneo orientale. “È una prova di forza permanente. Ankara e Atene – spiega Claudio Bertolotti a ilfattoquotidiano.it – appaiono molto determinate a non cedere terreno all’avversario. Se la Grecia è concentrata a tutelare una sorta di status quo nel quale è di fatto avvantaggiata, la Turchia persegue una politica di allargamento geopolitico, sfruttando le crescenti fragilità dell’arco mediorientale e africano. Ma, contrariamente alle apparenze, lo fa da una posizione via via più debole sul piano politico interno: la Turchia è un paese in forte recessione economica”.
Per Erdogan, nel Mediterraneo, la posta in gioco è molto alta e l’operazione “Irini” sembra essere di ostacolo alle sue ambizioni egemoniche. “La Turchia – continua Bertolotti – vuole allargare la propria presenza ed influenza nel Mediterraneo. Nel caso specifico in Libia. Alla luce delle dinamiche di Irini, la Turchia risulta essere svantaggiata poiché non può contare sugli accessi terrestri alla Libia, al contrario dell’Egitto che della Turchia è un competitor. E in effetti – conclude l’analista – Ankara ha ragione nel sostenere che ad avvantaggiarsi siano soprattutto i suoi antagonisti sul campo”.