Al prossimo vertice della Convenzione sulla diversità biologica (Convention on Biological Diversity, Cbd), i leader mondiali prevedono di accordarsi per trasformare il 30% del globo in “Aree Protette” (Ap) entro il 2030 – raddoppiando, in un decennio, l’area delle terre sotto questo specifico regime di protezione. Secondo le grandi Ong della conservazione, questa conversione mitigherà i cambiamenti climatici, ridurrà la perdita della fauna selvatica, aumenterà la biodiversità e di conseguenza salverà il nostro ambiente. Ma si sbagliano.

Le Aree Protette non salveranno il nostro pianeta. Al contrario, aumenteranno la sofferenza umana e in tal modo accelereranno la distruzione degli spazi che pretendono di proteggere, perché l’opposizione locale crescerà. Questo tipo di aree non ha alcun impatto sui cambiamenti climatici e si è dimostrato generalmente mediocre nel prevenire la perdita di vita selvatica.

Centocinquantanove tra esperti e Ong ambientaliste e dei diritti umani – guidate da Survival International, Minority Rights Group e Rainforest Foundation Uk – hanno denunciato in questi giorni le loro preoccupazioni sui costi umani della proposta e sulla sua efficacia come misura ambientale in una lettera diretta al Segretariato della Cbd.

Le Ong chiedono che vengano proposte soluzioni concrete per affrontare i gravi problemi climatici del pianeta, e che la loro causa reale – il crescente sovra-consumo, radicato nel Nord del mondo – sia adeguatamente riconosciuta e discussa. Se il 30% del pianeta sarà “protetto”, spiegano, a soffrirne non saranno certamente coloro che sostanzialmente provocano la crisi climatica, bensì gli indigeni e altri popoli locali del Sud del mondo, che non contribuiscono affatto, o ben poco, alla distruzione dell’ambiente.

Cacciarli dalla loro terra per creare Aree Protette non aiuterà il clima: i popoli indigeni sono i migliori custodi del mondo naturale e una parte essenziale della diversità umana, e ormai sempre più studi dimostrano che le terre gestite da questi popoli sono molto più efficaci nel proteggere l’ambiente.

In molte parti del mondo, una “Area Protetta” è un luogo in cui alle persone che per generazioni l’hanno abitato e considerato casa loro, improvvisamente non viene più permesso di viverci o usarne l’ambiente naturale per sfamare le proprie famiglie, per raccogliere piante medicinali o per frequentare i luoghi sacri.

Il modello è quello che ispirò la creazione dei primi parchi nazionali del mondo, negli Usa del XIX secolo, realizzati nelle terre sottratte ai nativi americani. Molti parchi statunitensi ridussero in poveri senza terra proprio i popoli che avevano letteralmente creato e alimentato quei paesaggi ricchi di “wilderness”.

Il fenomeno continua a perpetuarsi oggi in Africa e in alcune regioni dell’Asia ai danni di popoli indigeni e di altre comunità: i locali vengono cacciati con la forza, la coercizione o la corruzione; se cercano di cacciare per nutrire le loro famiglie o semplicemente accedere alle loro terre ancestrali, vengono picchiati, torturati e abusati dai guardaparco.

I migliori custodi della terra – un tempo autosufficienti e con un’impronta ecologica più bassa di chiunque di noi – vengono così diseredati e impoveriti, e spesso finiscono per aggiungersi alle fila del sovraffollamento urbano. Solitamente questi progetti sono finanziati e gestiti da Ong della conservazione occidentali. Una volta liberato il campo dai locali, arrivano i turisti, le aziende estrattive e altri. Per queste ragioni, l’opposizione locale alle Aree Protette è in crescita.

Espandere le Aree Protette sul 30% del pianeta garantirà un peggioramento del problema: poiché le regioni più ricche di biodiversità sono quelle dove i popoli indigeni sono riusciti a vivere fino ad oggi, saranno proprio quelle le prime aree prese di mira dall’industria della conservazione.

Ci troveremo di fronte al più grande land grabbing della storia, che ridurrà centinaia di milioni di persone a vivere in povertà senza terra (300 milioni, secondo le stime di Rainforest Foundation Uk, elaborate sulla base di un documento pubblicato sulla rivista accademica Nature in cui si analizzano le aree che con maggiore probabilità saranno candidate alla conversione in Aree Protette).

Raramente la creazione di queste aree è stata realizzata con il consenso delle comunità indigene coinvolte o nel rispetto dei loro diritti umani, e nulla oggi fa pensare che in futuro sarà diverso: è molto probabile, anzi, che finirà con l’aumentare la militarizzazione e le violazioni dei diritti umani.

L’idea di una “conservazione fortezza” – ovvero di dover rimuovere i locali dalle loro terre per proteggere la natura – è coloniale. È dannosa per l’ambiente ed è fondata su idee ecofasciste e razziste che, discriminando le persone, decidono quali contano di più e quali invece valgono meno e possono quindi essere sfrattate e impoverite, attaccate o uccise. Non ha nulla a che vedere con la protezione della biodiversità o la prevenzione delle pandemie: si tratta di soldi, terra e controllo delle risorse.

Questa espropriazione pianificata rischia di sradicare la diversità umana e l’autosufficienza, che sono la vera chiave per frenare il cambiamento climatico e proteggere la biodiversità. Se vogliamo seriamente aiutare l’ambiente, il metodo meglio collaudato e più economico è quello di sostenere il più possibile le terre indigene: l’80% della biodiversità del pianeta si trova già lì. Per i popoli indigeni, per la natura e per tutta l’umanità. #BigGreenLie

Photo credit: ©Nicolas Marino

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