La proposta di legge costituzionale 240/2019 fu approvata dalla Camera dei Deputati, nella seduta dell’8 ottobre 2019, in seconda deliberazione con 553 voti favorevoli, 14 contrari, 2 astenuti su 569 presenti e 567 votanti. Il 97 percento è una maggioranza che definire bulgara offende la democrazia popolare che governò quel paese durante la Guerra Fredda. Neppure Alexander Lukashenko, amante delle larghe maggioranze, avrebbe mai sognato una condivisione così robusta e convinta.

Il referendum confermativo, richiesto da un numero consistente di parlamentari che pure avevano votato la modifica costituzionale, non è stato altrettanto unanime, ma ha comunque raccolto 7 consensi su 10 tra i votanti, in numero sorprendentemente elevato rispetto ad altri casi in cui bisognava raggiungere il quorum della metà più uno. Se il 54 percento degli elettori si sono recati alle urne, vincendo il timore della pandemia, l’assetto costituzionale non è un tema specialistico, ma sta a cuore alla maggioranza dei cittadini. E i cittadini hanno approvato questa piccola riforma a larga maggioranza, dopo averne rigettato altre due.

L’esperienza di questo referendum senza quorum, accolto con inatteso entusiasmo e partecipazione dai cittadini indipendentemente dal voto espresso pro o contro, dovrebbe far riflettere sulla saggezza della gente. E su possibili nuove strade della democrazia che possano valorizzare questa saggezza.

La campagna dei sostenitori del “No”, sopraffatti dalla nostalgia per un seggio parlamentare in bilico, non ha certo consolidato la fiducia nella democrazia rappresentativa. È stata uno spot sull’inutilità del Parlamento, che stenta a finalizzare qualunque iniziativa legislativa propria, limitandosi a discutere e approvare i decreti governativi, spesso importanti ma non sempre urgenti. Ciò che è importante raramente è urgente, ciò che è urgente raramente è importante, come disse – forse per primo – il generale Dwight Eisenhower, eroe della seconda guerra mondiale e 34esimo presidente degli Stati Uniti.

Come ha scritto Harold James su Project Syndacate alcuni mesi fa, “non si può più negare che la democrazia sia a rischio in tutto il mondo. Molte persone dubitano che per loro la democrazia stia funzionando o che funzioni correttamente. Le elezioni non sembrano produrre risultati nel mondo reale, se non approfondendo le fratture politiche e sociali. La crisi della democrazia è in gran parte una crisi della rappresentanza o, per essere più precisi, un’assenza di rappresentanza”.

Nelle democrazie di tutto il mondo, gli elettori percepiscono sempre più che la maggior parte delle scelte fondamentali che influenzano la loro vita siano state già decise da strutture estranee, spesso sovra nazionali. Se la tecnocrazia basata su regole certe – la prima, il corporativismo – poteva funzionare bene per consolidare forme monolitiche di identità, oggi non basta più. E, secondo Hélène Landemore che insegna Scienze Politiche a Yale, la vera democrazia – la democrazia che abbia effettivamente mantenuto i suoi principi – può emergere pienamente solo riuscendo a unificare i vantaggi della saggezza deliberativa della folla.

Non è un traguardo facile, perché l’assetto neoliberista si fonda su “un sistema di propaganda efficiente: ignora ciò che è importante. Non vuole che le persone abbiano idee diverse”, come riconosce Noam Chomsky, preoccupato per l’indifferenza sulle reali cause della pandemia. “Se non parliamo della causa reale di questa pandemia, la prossima sarà inevitabile e sarà peggiore della precedente, a causa proprio della poca attenzione dedicata alla radice del problema”. E la via di uscita, che Noam Chomsky individua nel Green New Deal, non può prescindere da una nuova visione e una nuova declinazione della democrazia.

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